Nelle nostre dichiarazioni dei redditi c’è ancora la tassa sul macinato

16 Maggio 2020
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di GIUSEPPE REGUZZONI

Che fine ha fatto il glorioso centocinquantesimo? Che cosa è rimasto dell’orgoglio nazionale delle grandi parate, a parte un paio di milioni di euro buttati al vento? Monti accettò la sovranità fiscale dell’Europa dei banchieri, che ormai non solo decidono per noi le leggi su immigrazione e cittadinanza, ma stabiliscono anche quali e quante tasse dobbiamo pagare. Eppure dal Colle più alto ci avevano invitato a non dimenticare, a studiare e riprendere quelle pagine gloriose … Questo Paese venne investito dalle conseguenze di una manovra finanziaria lacrime e sangue, che cancellerà anni di conquiste sindacali – nel silenzio dei grandi sindacati -, comprimerà i consumi – nel silenzio della cosiddetta Destra liberale e impedirà per anni l’accesso a un lavoro decente a centinaia di migliaia di giovani – nel silenzio colpevole degli sbandieratori del Tricolore.

L’Europa dell’usura e la Roma del potere ci presentano il conto. Proprio come allora, quando, fatta l’Italia dei Savoia e dei Massoni, bisognò pagarne i costi. Il Colle più alto di allora, la monarchia sabauda, non tagliò i propri privilegi né lo fece la Casta. A sistemare le cose, fu chiamato, allora come oggi, un grande esponente del mondo accademico, Quintino Sella. La Bocconi non c’era ancora, ma le banche sì. Finita la sua esperienza di governo e salvata, a modo suo, l’Italia, Sella se ne fondò una tutta sua, che da lui prese il nome e che ancora esiste. La situazione era di emergenza e Sella, come lo fu il duo Monti-Passera prima e quello Renzi-Padoan adesso, considerarono e considerano quasi ovvio colpire nel mucchio. Allora come oggi quell’operazione ebbe il sostegno della maggior parte dell’alta borghesia del Nord e ubbidì agli ordini che venivano dalle logge europee: bisognava restituire alle banche inglesi i denari serviti per corrompere gli ufficiali borbonici e armare gli eserciti di Savoia e garibaldini.

Elaborata nell’estate del 1868, la tassa sul macinato entrò in vigore il 1 gennaio dell’anno successivo. In un Paese ancora poverissimo, dove l’alimentazione principale era a base di farine – pasta, polenta, pane – il Governo decise di tassare l’unica cosa che non era ancora tassata: la fame. Poiché, allora come oggi, lo Stato non si fidava dei suoi sudditi (siamo ancora considerati tali), la tassa colpì anche la produzione “presunta”. Ogni mugnaio era tenuto a versare la tassa, sia facendo riferimento a un contatore che misurava il numero di giri delle macine, che semplicemente in base alla macinazione stimata. La macinatura di un quintale di granoturco valeva per l’erario una lira, quella di un quintale di castagne cinquanta centesimi. All’epoca il salario di un’operaia tessile era di cinquanta centesimi al giorno. Un chilo di pane costava 45 centesimi. La reazione popolare – di cui a stento parlano i nostri libri di scuola – non tardò a mancare. Campagne e città furono infiammate da rivolte spontanee, presto sedate a colpi di cannone. Il comando della repressione fu affidato a Raffaele Cadorna, che nel 1870 si sarebbe distinto nell’eroica – e storicamente inesistente – presa di porta Pia. Scrive Antonio Gramsci – maestro dimenticato della Sinistra italiana – che la tassa sul macinato «era insopportabile per i piccoli contadini che per pagarla consumavano il poco grano prodotto da loro stessi; era causa di svendite per procurarsi il denaro ed occasione di pratiche usurarie pesantissime».

Oggi la Tasi, l’Imu sui fabbricati rurali, gli studi di settore, Equitalia… Il sangue del popolo e il potere degli usurai: la storia non è andata avanti molto.

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