In linea con le precedenti edizioni, anche il decimo ‘Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano’ curato dal centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali, presentato quest’oggi alla Camera dei Deputati, suggerisce allora una “corretta separazione tra previdenza e assistenza”. “Innanzitutto c’è un tema di adeguata comunicazione con le istituzioni europee”, ha precisato il professor Alberto Brambilla, presidente del centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali, rilevando come “dai dati forniti da Istat a Eurostat risulterebbe che l’Italia ha una spesa molto alta rispetto alla media europea, generando l’erronea convinzione che il sistema vada riformato. In realtà, come dimostra la riclassificazione operata dal nostro documento, il vero problema è la scelta dei governi italiani di allocare misure a sostegno delle famiglie o volte a contrastare l’esclusione sociale, a tutti gli effetti spese assistenziali, sotto il capitolo pensioni quello sul totale delle entrate contributive e fiscali, che vale nel 2021 il 60,36%, e quello sulla spesa totale, che supera il 52%; valore quest’ultimo sì in calo ma solo come conseguenza dell’incremento degli interessi sul debito e dell’incremento della spesa in conto capitale, passata dagli 88,58 miliardi del 2020 ai 106,83 nel 2021. In buona sostanza, al welfare è destinato più di un quarto di quanto si produce o più della metà sia di quanto si incassa sia di quanto si spende in totale.
Occorre una revisione del sistema previdenziale che sia “equa, stabile e soprattutto duratura”. Questa sempre l’opinione di Alberto Brambilla. “Negli ultimi anni – ha spiegato presentando il Rapporto sul Bilancio del sistema previdenziale italiano – la discussione politica si e’ concentrata quasi esclusivamente sulle formule per accedere con anticipo al pensionamento. Con il risultato di introdurre si’ flessibilita’, ma anche di vanificare, tra salvaguardie e meccanismi di anticipo volti a tutelare ora quella e ora l’altra categoria, senza un disegno preciso alle spalle, buona parte di quei risparmi che la riforma Monti-Fornero mirava a ottenere. allora giunto il momento di darsi regole certe per almeno i prossimi 10 anni, 1) limitando le anticipazioni a pochi ma efficaci strumenti, come fondi esubero, sospensione e contratti di solidarieta’ (riportando pero’ l’anticipo a un massimo di 5 anni) ; 2) bloccando l’anzianita’ contributiva (da sganciare dall’ uso di vita) agli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 per le donne, con riduzioni per donne madri e precoci, cosi’ come previsto dalla riforma Dini , e superbonus per quanti scelgono di restare al lavoro fino ai 71 anni di eta’; e 3) soprattutto equipaggiando le regole di pensionamento dei cosiddetti contributi puri a quelle degli altri lavoratori”. “Non si possono infatti piu’ trascurare – e’ il pensiero di Brambilla – le ingiuste regole che non consentono a quanti hanno iniziato a lavorare nel gennaio 1996 ne’ l’integrazione al trattamento minimo, a sua volta da commisurare all’anzianita’ contributiva, ne’ la possibilita’ di accedere alla pensione di vecchiaia anticipata in assenza di una rendita pari ad almeno 2,8 l’importo dell’assegno sociale. Stiamo parlando di circa 1.300 euro, davvero difficile da maturare in un contesto lavorativo come quello attuale”.
Portare poi le pensioni basse a 1.000 euro costerebbe 27 miliardi l’anno e porterebbe in pochi anni l’Inps al default, ha detto Brambilla. “Se si portassero a questo livello perché le persone dovrebbero pagare i contributi? Ci sono 4,5 milioni di pensionati che non hanno versato abbastanza contributi e quindi non hanno neanche pagato le tasse, oltre un quarto dei pensionati italiani”, non è – secondo Brambilla – una percentuale fisiologica. “La percentuale fisiologica di quelli che hanno bisogno – dice – è del 6/8%”.
“Da ormai troppi anni stiamo assistendo -commenta Brambilla- a una deformazione del sistema previdenziale italiano che, progressivamente e spesso con la mera finalità di ottenere consensi , trasferisce risorse all’assistenza, anziché razionalizzarne la spesa. Emblematici i casi della proposta berlusconiana di innalzamento delle pensioni minime (portare tutti gli assegni bassi a 1.000 euro, come chiede Forza Italia, costerebbe più di 27 miliardi), già rivalutate del 120% e portate a 600 euro dall’ultima Legge di Bilancio, a discapito della rivalutazione delle pensioni come insegna la lunga storia italiana, non producono risultati, favorendo incrementi dell’occupazione che si spengono alla fine delle agevolazioni. Meglio semmai, favorire i redditi e abbattere il costo del lavoro, incentivando il welfare aziendale, intervenendo sull’articolo 51 del Tuir sul modello già tracciato dai 600 euro del governo Draghi (e portati poi a 3.000 dal decreto Aiuti quater del ministro Giorgetti) o ricorrendo al credito di imposta, che premia i lavoratori e le imprese dinamiche e non le attività di mera sussistenza e assistite”.
”Prima di mettere le mani sugli assegni pensionistici o ragionare su ipotesi di riforma del settore, sarebbe bene separare i conti della previdenza da quelli dell’assistenza. Noi abbiamo quasi la metà delle PENSIONI non coperte da contributi: parliamo di 7 milioni di persone assistite su 16 milioni di pensionati. La spesa per assistenza cresce al ritmo del 6% all’anno, quella per le PENSIONI frutto di contributo è in sostanziale equilibrio. Quindi non è vero che i conti pensionistici sono in rosso, è vero piuttosto che con le PENSIONI frutto di una vita di lavoro si sta finanziando un’altra spesa che altrimenti non si saprebbe come sostenere”. E’ quanto dice Stefano Cuzzilla, presidente di Cida, al rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano curato dal centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali. ”Non è in discussione aiutare chi ha meno, che è il fine di ogni welfare state, ma occorre tutelare chi è onesto e scovare chi evade. 5 milioni di contribuenti (pensionati compresi) che dichiarano più di 35mila euro lordi l’anno e che restano praticamente soli a pagare il welfare di tutti”.