Il reddito di cittadinanza non funzionava? Lo avevano denunciato subito anche al Sud

4 Novembre 2021
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di Stefania Piazzo – Nel 1972 il Corriere della sera profetizzava che nel 2020, anno allora futuristico, Nord e Sud finalmente sarebbero stati sulla stessa lunghezza d’onda. A fine 2019, lo Svimez, con il reddito fresco di governo, aveva decretato che il reddito di cittadinanza non  stava risolvendo i problemi del Sud. C’era da stupirsi del contrario. Il mantra di tutti i governi è rilanciare il Mezzogiorno e a ogni giro elettorale si dice che il Sud non riceve abbastanza dallo Stato. E’ diventato un dibattito noioso e senza via d’uscita.

Il rapporto dell’istituto per lo sviluppo dl Mezzogiorno, decretava che “la povertà non si combatte solo con un contributo monetario, occorre ridefinire le politiche di welfare ed estendere a tutti in egual misura i diritti di cittadinanza . Peraltro l’impatto del Reddito sul mercato del lavoro è nullo, in quanto la misura (il reddito di cittadinanza, ndr), invece di richiamare persone in cerca di occupazione, le sta allontanando dal mercato“.

Le velocità sono diverse, il Paese resta duale. “La crescita dell’occupazione nel primo semestre del 2019 riguarda solo il Centro-Nord (+137.000)”. Al Meridione si registra invece un calo (-27.000). Si “riallarga così il gap occupazionale tra Sud e Centro-Nord, nell’ultimo decennio è aumentato dal 19,6% al 21,6%: ciò comporta che i posti di lavoro da creare per raggiungere i livelli del Centro-Nord sono circa 3 milioni”.

Poi si aggiunga il Pil in calo dello ‘0,2 al Sud e in ripresa col più 0,3% al Centro Nord. Poi c’è l’esodo dei giovani, e il calo demografico.

Ma a ribaltare la prospettiva del dare e dell’avere, era anche l’ultimo dossier che la Fondazione Openpolis aveva elaborato dai dati del ministero e ribattezzato “Il calcolo diseguale”. Scriveva il servizio che “Il sistema di distribuzione delle risorse ai comuni per i servizi, introdotto dalla riforma del titolo V, è stato attuato solo in parte. Questo ha alimentato la cristallizzazione del divario interno, in particolare tra il sud e il resto del paese. Il dossier di openpolis in collaborazione con Report ha cercato di fare luce sugli effetti del federalismo fiscale. Oltre ad analisi relative ai meccanismi di ripartizione attuali, abbiamo elaborato una proiezione di come verrebbero distribuiti i finanziamenti se il sistema funzionasse nei modi previsti dalla costituzione”.

E si leggeva:

“Lo scopo della nostra analisi è proprio quello di fare luce sugli effetti del federalismo fiscale per i comuni italiani e capire perché la legislazione in vigore non abbia avuto effetti sulle disparità territoriali in tema di servizi.

È per questo motivo che abbiamo dato vita, insieme alla trasmissione Rai Report, a un progetto volto a capire meglio questi aspetti, attraverso un metodo di indagine a tecnica mista, che comprende interviste a politici e responsabili del processo amministrativo, raccolta e analisi dei dati, verifiche con esperti del settore.

Questo lavoro di approfondimento ha cercato di far luce su un tema fondamentale per i cittadini, che purtroppo rimane ancora oscuro nonostante la sua centralità nel dibattito pubblico”.

E quali sono i punti oscuri, oltre che decretare il fatto che la riforma del Titolo V della Costituzione non abbia risolto nulla, anzi, abbia agito in ordine inverso?

“Tra le novità introdotte dalla riforma del titolo V nel 2001, erano previste delle misure per ridurre la disparità tra i comuni, nella dotazione di risorse economiche”. Ma leggete bene ora. 

“Nel 2010, a nove anni dalla riforma del titolo V, sono state stabilite le 10 funzioni fondamentali dei comuni. Tra queste l’organizzazione e la gestione dei seguenti servizi: trasporto pubblico comunale, raccolta e smaltimento dei rifiuti, servizi sociali comprensivi di asili nido.

Tuttavia, nonostante a oggi siano passati quasi 20 anni dalla riforma, lo stato non ha ancora individuato i livelli essenziali di prestazione (Lep) di queste funzioni fondamentali”.

Ma attenti bene, entra in gioco il fondo perequativo, ogni comune calcola la differenza tra il suo fabbisogno standard totale e la sua capacità fiscale. Spiega Openpolis.

  • se la differenza è positiva il fabbisogno è superiore alla capacità. Ciò significa che l’ente considerato non riesce con le proprie risorse a soddisfare il fabbisogno di servizi del proprio territorio. Per questo motivo, il comune riceverà risorse dal fondo.
  • se la differenza è negativa, il fabbisogno è inferiore alla capacità. Ciò significa che l’ente riesce con le entrate che ricava dal territorio a coprire il fabbisogno di servizi. Di conseguenza, verserà risorse al fondo, invece di riceverle.

In realtà, cosa accade? Dove casca l’asino? “Emergono delle criticità relative agli indicatori considerati. La capacità fiscalein quanto corrispondente a una stima e non alle effettive risorse economiche dei comuni. I fabbisogni standard perché, in assenza della definizione dei livelli essenziali di prestazione, non riescono a individuare la reale necessità di servizi su un territorio”.

Ma allora, di  cosa stiamo parlando? Non si sa quanto un Comune possa incassare dalle tasse, non si sa quanto sia un fabbisogno standard perché non è fissato il livello di prestazione…. La soluzione che hanno trovato è calcolare la spesa in base ai servizi offerti. Bene.

Apprendiamo che “La determinazione di questo indicatore è affidata a Sose, società partecipata dal ministero dell’economia e dalla banca d’Italia. Allo stato attuale, i fabbisogni vengono calcolati solo per i comuni delle regioni a statuto ordinario”.

Cosa accade, in concreto? Che i comuni che spendono meno avendo meno in cassa, vuoi per la scarsa capacità fiscale del territorio o per altre ragioni economiche, non esclusa la cattiva amministrazione, lo sperpero di risorse (si pensi solo alla sanità calabrese o campana…)  hanno fabbisogni calcolati su livelli più bassi, quindi ricevono meno.

Scriveva a questo punto la fondazione Openpolis: “Tale paradosso penalizza soprattutto i comuni del sud: offrono meno servizi per i quali spendono meno e quindi registrano fabbisogni inferiori. Al contrario, i territori del centro-nord e le grandi città, che hanno un’offerta di servizi ampia e diffusa sul territorio, hanno livelli di spesa più alti e quindi maggiori fabbisogni standard”.

Un comune spende meno, riceve meno. Il suo standard si abbassa. Ma da qui a dire che si tratti di una sperequazione tra Nord e Sud ce ne passa. Comuni commissariati, mala amministrazione, gestione delle risorse pubbliche spregiudicata, non sono citati nel dossier come elemento che genera il paradosso. Né viene affrontata la questione del residuo fiscale. Perché se Lombardia e Veneto hanno un credito fiscale di oltre 100 miliardi di euro, e se quel credito viene spalmato dove le tasse non alimentano i servizi, va da sè che qualcosa non torni.

Si chiama assistenzialismo, ed è il generatore del calcolo diseguale. La perequazione non funziona, il meccanismo premia chi offre più servizi. E quindi alza il livello delle prestazione e la loro richiesta. Alla fine, tutti restano scontenti. Il Nord, che chiedendo l’autonomia per far da sè, viene messo a tacere. Il Sud che pensava di avere più fondi, ne riceve meno. Perché se non investi, resti in sala d’attesa. Nel casino, i soldi spariscono.

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Direttrice: Stefania Piazzo
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