di Sergio Bianchini – In un editoriale del Messaggero del 26 maggio 2023 per la prima volta appare una totale stroncatura del pensiero di Don Milani che solo pochissimi anni fa era stato onorato ai massimi livelli della pubblica istruzione assieme alla Montessori.
Certo un’accoppiata (Milani Montessori) tutta da meditare seppure in linea con la consueta doppiezza degli assi culturali italiani.
Ebbene Luca Ricolfi accusa Don Milani di non comprendere l’importanza dell’alta cultura, non solo per la società ma particolarmente proprio per l’elevazione degli strati popolari tramite la realizzazione di quel diritto allo studio scritto nella Costituzione all’articolo 34.
L’analisi specifica delle fissazioni “ideologiche” della scuola di Barbiana incapaci di dare sbocchi reali ai problemi si concentra su tre elementi. Don Milani esagererebbe nel contrapporre la cultura popolare operaia e contadina all’alta cultura dei licei e dell’università e nel dare troppo peso all’insegnamento non del sapere alto (matematica, letteratura, filosofia) ma del sapere pratico attualistico e immediatamente fruibile come la lettura del giornale. Inoltre si accusa erroneamente il priore di volere una scuola con orario molto più lungo mentre il don voleva un doposcuola pomeridiano riservato solo agli alunni col più basso livello culturale proprio per ridurre il divario coi Pierini titolari di una cultura familiare elevata.
Anche Ricolfi si trova impantanato nel suo schema ideologico che, per ripicca, cioè col metodo fondamentale del dibattito culturale Italiano, esalta la cultura alta, l’università ed i licei contrapponendola al mito della cultura popolare operaia e contadina.
Non voglio qui fare l’esaltazione di Don Milani proprio per non cadere nello stesso errore. Faccio alcune osservazioni sullo stato della scuola attuale, che non ha seguito lo schema del priore, e sulle terapie secondo me necessarie per superare la catastrofe a cui essa è pervenuta. Catastrofe, la parola opportunamente usata proprio da Ricolfi in un suo recente scritto.
La prima considerazione riguarda lo stato del docente statale. Il suo orario è il più basso del mondo, con 18 ore settimanali nelle medie e nelle superiori e con 22 ore settimanali nelle elementari. Nelle scuole non statali, paritarie, regionali, private ordinarie, vige un contratto di lavoro che prevede 36 ore. Di fatto, e parlo per esperienza diretta sia come ex insegnante che come preside, il docente statale è stato un lavoratore part time dove molti e soprattutto i maschi svolgevano spessissimo una seconda attività e le femmine si dedicavano alla famiglia. Ogni tentativo di ampliare l’orario di servizio dei docenti statali ha sempre trovato e trova un muro insormontabile.
Il divieto di svolgere il secondo lavoro introdotto circa 20 anni fa ha prodotto una progressiva femminilizzazione del corpo docente che vede nelle elementari una percentuale superiore al 90% e nelle medie poco meno. L’accusa del Don al docente della media di avere un orario “indecente” è ancora a mio parere attualissima. Senza fare dell’insegnante statale un vero mestiere che non veda sempre il rifiuto dell’orario pomeridiano, sarà impossibile uscire dalla catastrofe.
Il prolungamento invece dell’orario delle lezioni per tutti gli alunni trova ovunque entusiastici sostenitori. Infatti, diversamente dal doposcuola suggerito da Don Milani e riservato ai non Pierini, si è ingigantita l’idea del tempo pieno per tutti che molti leader politici vorrebbero persino rendere obbligatorio, alcuni per creare ulteriori posti di insegnante, altri per ridurre le differenze e il peso della famiglia. In Italia assistiamo alla mostruosità di sei e perfino 7 ore consecutive di lezione senza che nessun intellettuale, nessuno psicologo, nessun portatore di “alta cultura” formuli la minima obiezione.
Eppure tutti si sbracciano nel diffondere nobili profumi di impegno educativo, formativo, con parole infinite dedicate alla necessità di personalizzare l’insegnamento, di aderire ai livelli ed ai problemi reali di ogni alunno. E così avanti coi posti aggiuntivi per tutori, orientatori, insegnanti di sostegno ecc. Masse enormi di personale proteso solo alla conquista del posto e non motivato a risultati veri per i quali non viene preparato e aggiornato.
Anche la clausola dei primi tre anni di ruolo nella stessa scuola per minime ragioni di continuità didattica è azzerata dalle infinite scappatoie che la legge consente sempre per ragioni umanissime, umanissime non per gli alunni ma per il personale.
E così la fuga dalla catastrofe organizzativa della scuola spinge sempre più famiglie ad iscrivere i figli nei licei sperando in un più lento processo di decadimento che però anche lì avanza a velocità crescenti.
La finzione amorevole e la doppiezza dominano il panorama della scuola statale.
Di fatto nella scuola statale si lavora non per buoni risultati sull’alunno ma per il benessere sindacale dei docenti. Le immissioni in ruolo, i trasferimenti, le pensioni, sono i discorsi fondamentali che circolano nella pubblicistica scolastica e purtroppo anche nel comune sentire dei docenti. Che ormai, persa ogni reale nobiltà sociale, sono stressati e immersi in un clima di lavoro disastroso dominato dall’ingovernabilità degli alunni e dal conflitto scuola famiglia.
Concludo con la bocciatura. Per Don Milani la bocciatura era vietata nella scuola dell’obbligo che era da riservare alla formazione minima del cittadino. Era invece ammissibile ed anzi doverosa nella scuola superiore dove la qualifica ed il diploma dovevano essere coniugate con effettive competenze, come per la patente diceva il Don.
Da noi si è fatto il contrario, negando il doposcuola riservato negli anni di obbligo e promuovendo tutti anche nella scuola superiore.
Ottimo, la catastrofe è l’inevitabile prodotto della doppiezza imperante.