Regionalismo, decentramento e piccole patrie nelle parole di un nazionalista italiano del 1911

25 Maggio 2023
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di Cuore Verde – L’etnia italiana, una e indivisibile, non esiste perché “esistono, in realtà, parecchi tipi di italiani, quante sono le nostre regioni”. 

Questo concetto e altri similari come quello delle “piccole patrie” è espresso chiaramente da Scipio Sighele nel suo testo “Il Nazionalismo e i Partiti politici” pubblicato nel 1911. Sighele (Brescia, 1868 – Firenze, 1913) oltreché psicologo, sociologo e criminologo,  è stato un anche un militante dell’Associazione Nazionalista Italiana, un partito politico nato nel congresso di Firenze del dicembre 1910 che, successivamente, nel 1923, confluirà nel Partito Nazionale Fascista. Un partito, quindi, certamente orientato verso una concezione estrema del nazionalismo italiano. Eppure, nel  capitolo “Regionalismo e decentramento”, con una premessa di Vincenzo Gioberti, Sighele, nel difficile tentativo di conciliare nazionalismo italiano ed autonomia regionale, criticando fortemente gli effetti negativi del centralismo, arriva ad esprimere concetti estremamente moderni su federalismo, autonomia e piccole patrie. Quasi profetico. Inascoltato. Ecco il testo integrale.    

“I sistema federativo non è già falso da ogni parte, perché tanto giova nell’amministrazione quanto nuoce nella politica. L’Italia par destinata a comporre dialetticamente i suoi pregi e vantaggi con quelli dell’ordine contrario, ampliando le libertà comunali e facendo in modo che ogni municipio abbia tutta quell’autonomia che è compatibile coll’unità del governo della ripresentanza e della milizia”. Gioberti.

Ho letto, in un libro del Maurras, questa similitudine : il potere centrale si trova spesso nella situazione di un atleta che tenga sollevato a braccia tese un gran peso fino a] momento in cui, stancandosi i muscoli, è costretto a lasciarlo cadere. Il potere centrale ha molto spesso lasciato cadere questo peso superiore alle sue forze. Uno dei compiti del nazionalismo — e non dei minori — dovrebbe essere, secondo me, di alleggerire il potere centrale dei troppi pesi che inutilmente esso porta, per lasciargli soltanto quelli che sono adatti alla sua costituzione.  Lo « Stato-Provvidenza » che pensa a tutto, provvede a tutto, s’ immischia di tutto e vuol perseguitare, col pretesto d’aiutarlo, il cittadino fin nel suo comune, fin nei suoi affari, fin nella sua famiglia, è una concezione non solo pericolosa perché sotto il colore grigio dell’eguaglianza e quindi della giustizia, nasconde il color rosso del despotismo giacobino, ma è anche una concezione illogica perché immagina identiche delle condizioni di fatto, e identici dei rapporti sociali che sono necessariamente diversi. Ciò che vive non è mai simmetrico: ciò che è naturale è sempre variato. La centralizzazione eccessiva urta contro questa verità, perché vuol ridurre a un unico livello, foggiare in un unico stampo, idee costumi abitudini temperamenti che sono etnicamente e storicamente diversi, e fabbrica. — per sua comodità — un solo tipo d’italiano che non esiste. Esistono, in realtà, parecchi tipi di italiani, quante sono le nostre regioni; tipi diversi, ma non contrarii fra loro, e che costituiscono anzi, nelle loro diversità simpatiche e convergenti, l’unità mirabile dell’organismo nazionale. Tutti gli organismi superiori — gli individuali come i collettivi — sono composti di diversi organi, ognuno dei quali contribuisce alla vita del tutto, a patto però che ognuno sia considerato e trattato secondo la sua natura e la sua speciale funzione. Violentare questa diversità, e cercar di annientarla con un trattamento identico, significa fare il danno dell’organismo.

Or sono quattordici anni (e cito la data perché non si dica che io copio la più recente campagna che sono andati facendo a favore del decentramento in Francia, Carlo Maurras e Maurizio Barrès) io scrivevo queste parole : — « L’Italia non è — per chi la consideri dall’alto e da lontano come una astratta entità psicologica — un organismo uniforme. Essa è, nell’anima del suo popolo, quello che è nella sua geografia: il paese che riunisce gli spettacoli più diversi : e come voi potete, attraversandola, passare dai ghiacciai delle Alpi al sorriso delle marine, da campagne ubertose a terpeni deserti e malarici, da selve ove cresce soltanto la nordica, pianta dell’abete a giardini ove fiorisce l’arancio, così, giudicandola socialmente, voi dovete confessare che i suoi abitanti offrono molte varietà all’antropologia e tutte le note alla scala della psicologia. Orbene, questa varietà antropologica e psicologica che costituisce la bellezza artistica e potrebbe costituire la perfezione sociale del nostro paese, è, viceversa, fonte di invidia fra gli italiani e quindi di debolezza collettiva di fronte agli stranieri, perché noi, anziché riconoscerla francamente e svilupparla sapientemente, ci siamo ostinati a negarla e a comprimerla in omaggio a un falso concetto del patriottismo. L’esagerazione e l’iperbole, che sono fra i nostri maggiori difetti, ci hanno fatto credere che noi eravamo non soltanto tutti fratelli ma anche tutti eguali da un capo all’altro della penisola, e siamo andati sempre innanzi sulle stampelle della retorica e al suono dei grandi nomi, proclamando che noi dovevamo essere tutti amministrati ad un modo fin nelle minime particolarità, italiani della Sicilia, e del Veneto, del Piemonte e della Calabria. E quando — dapprima — qualche voce isolata di osservatori indipendenti osò ammonire: — badate, noi siamo diversi per razza, per storia, per abitudini, e bisogna quindi piuttosto che imporre a forza un’unificazione amministrativa formale, preparare a poco a poco un’unificazione sincera e reale, — i più copersero quelle voci isolate sotto il clangore degli squilli della loro retorica patriottica; e quando più tardi quelle voci s’alzarono più forti e più numerose e non fu possibile ridurle al silenzio, si disse da molti che erano l’opera di scuole scientifiche superficiali e paradossali, o di uomini e di partiti che volevano minare l’unità politica del nostro paese. Invece — prescindendo dal modo con cui certe verità si dovevano e si debbono dire — io credo ed affermo che il pericolo vero per l’unità della nostra patria non istà nel riconoscere apertamente ch’essa è formata di regioni che hanno idee sentimenti e bisogni diversi, ma consiste nell’ostinarsi a negare questa differenza, e nel voler quindi educare e amministrare tutti gli italiani in un modo identico, costringendoli legislativamente in un letto di Procuste che fa sorgere gli urli della protesta, e fa deviare patologicamente quello spirito regionale che — se fosse rispettato nei suoi giusti limiti — sarebbe ancor oggi, come fu in un certo senso all’epoca dei Comuni, la fortuna d’Italia. E questa mania di un’eguaglianza e di un’uniformità impossibili e innaturali, che ci ha impedito di formare un’anima collettiva veramente degna di noi, specchio fedele di quello che siamo e di quanto valiamo. Perduti nel pregiudizio che base necessaria dell’unità politica sia l’uniformità sociale, noi abbiamo lavorato inutilmente, colle leggi e colle frasi, a creare un tipo unico di italiano che non esiste e non può esistere; e non ci siamo accorti che il nostro dovere di cittadini e di uomini sinceri era invece di lavorare, con un prudente sistema di federalismo amministrativo, allo sviluppo autonomo dei varii tipi di italiani, i quali, tutti insieme, avrebbero cooperato a formare dell’Italia, non un organismo rigidamente monotono, ma un organismo sciolto libero snello che nella stessa diversità delle indoli di cui era composto, avrebbe trovato le ragioni della sua bellezza e della sua forza».

Oggi, il nucleo del mio pensiero non è mutato, anzi s’è integrato nella concezione nazionalista. Oggi, come allora, non mi par giusta la facile obbiezione rivolta contro il nostro principio — essere necessario che tutte le leggi sieno eguali su tutti i punti del territorio nazionale — e non mi par giusta perchè leggendo Taine mi sono sempre più convinto che certe leggi devono piegarsi alle varietà fisiche e morali del paese, devono anzi derivare da queste varietà. Nessuna opera come «Le origini della Francia contemporanea» dimostra limpidamente che la vera, la forte autorità politica non esige affatto l’onnipotenza dello Stato in ogni più piccolo particolare. 

II decentramento, che è in fondo la dottrina delle autonomie locali, dottrina determinata non tanto dal capriccio degli uomini quanto dai loro interessi e dai loro caratteri di ordine economico e storico, risponde non solo a un principio di logica e di giustizia, ma risponde anche — se mi è permesso di esprimermi così, — a un principio di psicologia. Il decentramento cioè rispetta quel sentimento della «piccola patria», che molti credono un pregiudizio, che troppi vorrebbero distruggere come contradditorio e pericoloso al sentimento della «grande patria». Invece a me non pare vi sia dissidio fra il piccolo patriottismo e il pattriottismo grande : a me pare che l’uno raddoppi l’altro. Io amo il mio Trentino appassionatamente, e forse è questa l’oscura ragione per cui amo appas- sionatamente anche l’Italia. Diffidate di chi non ha una tenerezza speciale per la terra ove è nato : mi somiglia al figlio che non ha una preferenza per la sua mamma : come saprà costui veramente amare la sua città, la sua nazione?

Noi non dobbiamo dunque avere paura che al sentimento nazionale s’aggiung’a un sentimento locale. Noi dobbiamo soltanto vegliare perchè questo sentimento sia rispettato, non sia offeso. E rispettandolo, se ne farà una forza che darà intimo calore di affetto domestico alla devozione verso la patria: offendendolo, lo si farà degenerare in quel regionalismo che non vede al di là dei confini della provincia ove si è nati, e che è, per questa miopìa, un avversario, anziché un alleato, del patriottismo e quindi un ostacolo al tramutarsi del patriottismo in nazionalismo.

Il ritorno alla vita locale — entro certi limiti e in date condizioni — è l’unico mezzo per combattere quell’anemia delle estremità che si sviluppa come conseguenza fatale dell’ipertrofia del centro. Ed è anche l’unico mezzo per impedire che il cittadino consideri lo Stato come un intruso, come un prepotente invasore, e nutra quindi verso di lui un’avversione che gli fa dimenticare e trascurare i suoi doveri nazionali, per ricordargli soltanto — quasi in opposizione e per rappresaglia — i suoi diritti di cittadino d’una data città, di figlio di una data regione.

Lo Stato, ossia il governo centrale, noti può — per quante minuziose leggi faccia e per quanto sappia farle rispettare — stringere così da vicino l’individuo da poter veramente essergli di sostegno e da poter veramente mettere in gioco tutta la sua energia. Ci vogliono leggi locali e speciali perché l’individuo senta che esse sono fatte per lui, le riconosca adatte, si compiaccia di saperle tali, veda in esse un omaggio doveroso alla sua terra, un riconoscimento della sua individualità locale, e trovi in esse quell’appoggio che la grande legge ugualitaria non gli può dare perché somiglia ai cappotti dei coscritti fatti su un’ unica misura, o troppo larghi, o troppo stretti.

Senza dubbio — e non occorrerebbe quasi di dirlo se non temessimo che il nostro pensiero venisse esagerato e snaturato da furbi avversarii — senza dubbio vi è una centralizzazione necessaria: quella che riguarda i grandi interessi della nazione, le sue funzioni collettive di cui deve rispondere non solo in faccia a sé stessa ma in faccia al mondo. Politicamente, militarmente, finanziariamente, la centralizzazione è una necessità assoluta. È la conseguenza imprescindibile dell’unità nazionale. Ne è il simbolo, !ne è la forza. Se è vero che l’Europa sia — e non solo l’Europa, ma ormai tutto il mondo — un campo di battaglia, ne deriva che ogni nazione deve essere come un esercito: salda compatta organizzata sotto un’unica legge, un’unica, disciplina. Le amministrazioni della Guerra, della Marina degli Affari esteri, e l’amministrazione delle Finanze che è la base di quelle, non potrebbero essere decentralizzate senza colpire al cuore l’unità nazionale che noi vo- gliamo, più che tutti, fortissima ed intangibile.Ma ciò che noi neghiamo al potere centrale — il peso inutile di cui lo vorremmo alleggerire — è razione diretta, personale, vessatrice nella gestione degli interessi che non sono comuni a tutto il corpo della nazione, sibbene particolari ai comuni e alle regioni.

La Prussia, che è lo Stato più forte della. Germania, è quello dove più è applicato il decentramento. Centralizzata militarmente, la Prussia ha civilmente una mirabile rete di autonomie. Ed essa ha risolto così il difficile problema di conservare allo Stato tutta la sua autorità nelle questioni dove deve averla, e di togliergliela in quelle dove sarebbe inutile e dannosa. I cittadini apprezzano questa divisione che lascia una certa indipendenza. alla loro piccola patria, e ne ricavano un sentimento di gratitudine per amare con più fervore la patria grande, e per saper sacrificarsi per lei quando occorra.Un giornalista francese scriveva recentemente : « Una pericolosa tendenza della nostra epoca consiste a mantenere fino all’ assurdo le prerogative dello Stato nelle piccole particolarità dell’amministrazione, che lo rendono odioso, mentre quelle prerogative si indeboliscono in alto in ciò che vi è di più essenziale e di più necessario: è il movimento contrario che deve unirci se noi vorremo essere sagaci e chiaroveggenti. Spogliare lo Stato dei suoi minimi ma antipatici privilegi i quali non sono che un istrumento di tirannia locale nelle mani di funzionari troppo zelanti e onnipotenti : e stringere invece il fascio invincibile delle forze che corrispondono alla missione superiore dello Stato, che gli permettono di rappresentare la nostra sicurezza collettiva, la nostra fierezza nazionale, la nostra grandezza esterna».

Tali parole dicono in breve e con limpida precisione quello che noi siamo andati dicendo da tempo : esse scolpiscono, oltre e meglio che le condizioni della Francia, quelle dell’Italia: esse sono parole nazionaliste, e si incontrano nella tesi del Maraviglia, e la spiegano, perché esse assegnano appunto, come il Maraviglia voleva, allo Stato «la tutela degli interessi puri». Degli interessi cioè veramente e superiormente nazionali.”

(Da  “Il Nazionalismo e i Partiti politici” – Capitolo II: Regionalismo e decentramento”  – Scipio Sighele –  Milano – Fratelli Treves, Editori 1911) 

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