Nei paesi delle “marocchinate” la gente diceva: “Erano meglio i tedeschi”

3 Ottobre 2020
Lettura 16 min

di Roberto Gremmo – La liberazione dell’Italia iniziò con una turpe ed ingiustificata ‘guerra ai civili’ perché appena invasa la Sicilia i soldati americani fecero due stragi di popolani italiani del tutto innocenti.

Il 14 luglio 1943, due giorni dopo lo sbarco, mentre le truppe alleate occupavano l’aeroporto di Biscari (oggi Acate) in provincia di Catania una pattuglia della fanteria americana catturò trentasei civili e, senza alcun motivo, il comandante John T. Compton ordinò d’ucciderli all’istante.

Dopo qualche ora, il sottufficiale americano, il sergente Horace T. West che aveva avuto l’incarico di scortare nelle retrovie altri quarantacinque civili italiani e tre soldati tedeschi dopo aver percorso qualche centinaio di metri ordinò ai suoi soldati d’allineare quei disgraziati sul ciglio della strada dove furono subito fucilati.

Il comandante dell’armata americana generale George Patton cercò di coprire i responsabili delle stragi dichiarando che gli assassinati erano dei “cecchini”. Risultò invece che si trattava in gran parte di contadini e braccianti mentre alcuni dei soldati americani agivano sotto l’effetto di stupefacenti.

Era solo un tragico inizio.

Sempre in Sicilia, dopo qualche mese, a Xitta in provincia di Trapani, il 9 aprile 1944 un gruppo di paracadutisti francesi tentò di violentare delle donne ma gli uomini del paese li misero in fuga. Presi alla sprovvista in un primo tempo gli alleati se la dettero a gambe ma poi tornarono sparando ed ammazzando tre italiani.

Questi delitti mostrarono a popolazioni inermi ed indifese il volto tutt’altro che rassicurante dei ‘liberatori’ proprio mentre i capintesta anglo-americani rivelarono la loro singolare concezione della democrazia ponendo alla testa delle amministrazioni italiane individui ambigui e dal passato torbido od oscuro che però favorivano le loro esigenze di mantenimento dell’ordine pubblico.

Mentre proseguivano le operazioni belliche, fra l’8 settembre 1943 e la fine dell’anno, soldati alleati si resero colpevoli di 32 omicidi di civili, 50 ferimenti, 102 aggressioni, risse e violenze, 210 furti e rapine, 88 incidenti automobilistici con morti e 128 con feriti ma anche di 8 violenze carnali consumate e 4 tentate.

Il 26 dicembre 1943 a Maddaloni tre marocchini stuprarono una giovane minorenne ed il giorno seguente ad Atella di Napoli una casalinga diciannovenne venne “con violenza deflorata et posseduta per circa un’ora scopo libidine” da tre militari arabi del contingente francese che dopo aver soddisfatto le loro voglie la lasciarono abbandonata per terra.

Il 23 febbraio 1944 a Sessa Aurunca sei militari marocchini penetrarono in una casa colonica dove violentarono una donna di trentun anni di fronte al marito tenuto prigioniero.

Dal mese di gennaio del 1944 ad aprile i soldati alleati si resero colpevoli di 75 omicidi di civili, 158 ferimenti, 279 aggressioni, risse e violenze, 320 furti e rapine, 300 incidenti automobilistici con morti e 513 con feriti, 19 violenze carnali consumate e 43 tentate.

Secondo i carabinieri, nel solo mese di maggio 1944 si contarono almeno 39 violenze carnali ad opera di militari alleati, salite a 626 a giugno; se ne tentarono 25 a maggio e 48 a giugno ma solo poche vittime presentavano denuncia e dunque le cifre via via registrate sottostimavano grandemente un dramma sociale, sanitario ed umano che neanche oggi è possibile quantificare.

In effetti, i delitti di massa compiuti dal contingente di ‘liberazione’ (sic) francese furono d’ogni tipo, restarono sostanzialmente impuniti se non addirittura incoraggiati dai vertici militari ‘degollisti’ ed avvennero in diverse zone del nostro Paese. Furono compiuti di fronte all’impotente sconcerto dei nostri carabinieri, posti in quanto ‘vinti’ nelle condizioni di non poterli ostacolare, anche se grazie ai loro dettagliati rapporti è almeno possibile conoscere le dimensioni del fenomeno criminale che è passato alla storia col termine di ‘marocchinate’ con cui furono tristemente definite le povere vittime.

Una prima inchiesta venne avviata dai carabinieri poche settimane dopo i delitti avvenuti fra il 2 ed il 5 maggio 1944 in Lazio dove i reparti marocchini “infierirono contro quelle popolazioni, terrorizzandole. Innumerevole danno a ragazze minorenni dei comuni di Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, Morolo e Sgurgola vennero violentate da più marocchini, che costrinsero spesse volte i genitori delle fanciulle ed i mariti delle spose ad assistere a tanto scempio. Sempre ad opera di soldati marocchini, vennero rapinati innumerevoli cittadini dei loro averi, di orologi e gioielli, e derubati di gran parte del loro bestiame – agnelli, pecore, capre e polli – e saccheggiate le loro abitazioni, alcune delle quali anche incendiate”. Erano stati accertati 13 omicidi, 250 rapine, 303 furti e 396 violenze carnali di cui 3 “commesse in persona di uomini, mentre le altre nei confronti di donne di età oscillante tra i 12 e i 65 anni”.

Anche queste erano cifre assolutamente inferiori a quelle registrate dagli stessi carabinieri nemmeno un mese in diverse altre località della provincia di Frosinone dove però le indagini erano risultate ancora e sempre “difficili per la comprensibile ritrosia da parte delle vittime e dei loro parenti a comunicare i particolari delle violenze subite”.

Nel comune di Pico fra il 20 ed il 24 maggio 1944 erano state consumate da parte di soldati del contingente francese 98 violenze carnali contro donne del luogo, la maggior parte commesse da “truppe di colore” ma ben 45 da parte di francesi ‘bianchi’. Fra le nove vittime minorenni c’erano una bambina tredicenne e delle anziane di 60, 64 e 76 anni.

A Pastena erano state violentate almeno 45 donne, compresa una bimba di 13 anni, due di 14, una di 15, una di 16, due di 17.

Le donne violentate ad Amaseno furono almeno 12, compresa una giovane di 17 anni e due cinquantenni.

A Vallecorsa vi furono almeno 101 vittime, compresa una bimba di 12 anni. Una donna morì per le aggressioni subite.

A Ceccano vennero violentate almeno 21 donne, compresa una ragazza di 17 anni ed un’anziana di 70.

A Villa Santo Stefano furono violentate almeno 4 donne, compresa una bambina tredicenne.

A Castro dei Volsci le donne violentate furono almeno 277, compresa una bambina di 7 anni, un’altra di 10, 11, due di 12, tre di 13, otto di 14, tredici di 15, venti di 16, sedici di 17, una donna cinquantenne brutalmente sgozzata dopo lo stupro e delle anziane di 60, 63, 64, 66, 67, 71, 78 ed addirittura 81 anni.

A Fofi vennero violentate almeno 9 donne, compresa una ragazzina di 16 anni e due di 17.

A Patrica furono oggetto di violenza carnale almeno tre donne ed a Ceprano almeno 7, compresa una giovane di 17 anni.

Altrettanto drammatica la situazione della provincia di Littoria dove in pochi giorni i soldati del corpo di spedizione francese seminarono lutti e dolori, ferendo nel corpo e nella dignità centinaia di povere donne indifese.

Le prime avvisaglie di un dramma sociale d’impensabili dimensioni si ebbero il 18 maggio 1944 a Campodimele dove iniziarono gli stupri che proseguirono fino al giorno 25. Decine di violentatori si accanirono senza pietà su delle bambine (compresa una tredicenne), donne sposate ed anziane (compresa una settantacinquenne) e contro un bambino tredicenne.

Il comune di Lenola venne colpito dalla furia violentatrice dei “soldati di colore” francesi dal 20 maggio al 5 giugno. Quando gli alleati finalmente se ne andarono, ben 131 donne di età compresa fra i 13 ed i 74 anni ebbero il coraggio di denunciare stupri, furti ed atti di libidine violenta. Anche tre ragazzini ed un vecchio di 82 anni erano stati obbligati a sottostare con la forza alle voglie bestiali dei soldati coloniali.

Presentando al comando alleato le prove delle atrocità subìte da quella povera gente, il questore di Littoria volle comunque chiarire che “il numero delle denunce presentate da persone che ebbero a subire atti di violenza da parte delle truppe marocchine specialmente per quanto riguarda[va] i comuni di Lenola e Campodimele, non rappresenta(va)no neppure un terzo di quello reale, perché per questione di onore la maggioranza si [era] astenuta dal produrre le denunzie del caso”.

La sera del 3 agosto nelle campagne di Littoria “militari bianchi e di colore del corpo di spedizione francese” assaltarono una fattoria isolata, violentarono tre donne e fuggirono rubando biancheria, oro e danaro.

Un’inchiesta pubblicata dal quotidiano “Il Messaggero” alla fine del 1946 documentò con dettagli accurati e raccapriccianti quello che poteva legittimamente essere definito il vero e proprio “Martirio” delle donne di Esperia:

“Questo paese di pastori e contadini, chiuso nella squallida valle fra la Mainarda e gli Aurunci, fu un tempo allietato da opere oneste e da famiglie, povere, forse, ma sane, solerti e con grande speranza nell’avvenire.

Oggi, al contrario, non è che un orribile lazzaretto. E’ difficile dire l’impressione che si prova arrivando alle porte di questo oscuro villaggio , dove 2500 uomini vivi si trascinano disperatamente lungo i vicoli semideserti, con negli occhi la sinistra visione delle proprie donne contaminate e distrutte, divorate dalle malattie. […] Nessuno […] avrebbe immaginato che, a pochi chilometri dalla capitale d’Italia, esiste, quasi isolata dal mondo, una “colonia” di uomini ingenui ma ormai pieni di odio, di madri deturpate dai nuovi barbari – i marocchini cittadini di Francia – e di poveri fanciulli meticci o bastardi. […] Ad Esperia, nel maggio del 1944, erano rimaste soltanto le donne. I padri, i fratelli, per evitare le razzie tedesche, si erano rifugiati sulle montagne. Alcuni di essi combattevano da partigiani, attendendo con ansia l’arrivo delle truppe alleate. Alcuni di essi – su quelle montagne – morivano eroicamente per la difesa dei loro ideali e in odio alle devastazioni della Wermacht. Il rosario dei giovani era lento e calamitoso. La fame imperava fra le povere 700 donne di Esperia e fra i loro uomini rimasti alla macchia. Ma la certezza di una prossima vita migliore, della libertà, della serenità, faceva stringere i denti alle une e agli altri. […] Poi il 17 maggio, il fronte fu rotto. Da Formia, avanzavano verso i villaggi del Liri le truppe liberatrici, precedute da avanguardie marocchine. […] 695 donne (vale a dire l’intera popolazione femminile di Esperia), nel giro di una quindicina di giorni, quanto restarono i marocchini nel paese, furono tutte violentate in maniera orrenda dai sopravvenuti militari marocchini. […] Gli ufficiali di quelle truppe – anch’essi di colore – non si limitarono a partecipare all’orgia, ma aizzavano addirittura i loro dipendenti a rendere più “agreables” le loro prodezze virili. Qui è noto a tutti che perfino una settantenne semiparalitica, rimasta in casa con una sola nipotina di 17 anni, fu vergognosamente “assaltata” da ben cinque marocchini, Rimasta quasi morente, fu messa da parte e si passò, con maggiore ardore, alla giovinetta.

Le donne che si opponevano alle violenze furono picchiate, seviziate, ridotte in brandelli. Perfino qualche sacerdote, i vecchi, i bambini, subirono in parecchi casi il medesimo oltraggio”.

Già nell’autunno del 1944 un funzionario della “Direzione Generale della Sanità Pubblica” dopo un ispezione nelle zone dove maggiormente s’era scatenata la violenza delle truppe francesi aveva illustrato con chiarezza le dimensioni di quel dramma umano, sociale e sanitario senza riuscire a nascondere il proprio sdegno:

“Durante la mia permanenza nella regione percorsa dalle truppe marocchine ho potuto ascoltare, dalla viva voce delle persone colpite dalla brutalità di quei soldati, il racconto delle loro gesta.

Permane e si tramanderà certo ai posteri, l’orrore per l’accaduto: si sente spesso ripetere “erano meglio i tedeschi perché si limitavano a portarci via il bestiame”.

Le donne che furono violentate sono giovani, ingenue contadinelle fra i dodici e i venti anni. Non sono state risparmiate spose oneste e timide prese nei ricoveri della montagna ove si erano rifugiate per sfuggire alle cannonate, ridotte alla obbedienza con minacce, fucilate e anche ferite, trascinate in mezzo a campi di grano e in capanne. Madri vituperate sui loro stessi letti in presenza dei bambini piangenti e dei mariti tenuti a bada dalla canna di fucile puntata sul petto. Non sono sfuggite vecchie più che settantenni, paralitiche nel loro letto, uomini giovani e anziani. Le poche donne precedentemente dedite a cattivi costumi sono note e segnalate.

Sono stati uccisi alcuni congiunti che tentavano difendere i loro cari. Oro, biancheria, bestiame lasciato dai tedeschi è stato portato via dai marocchini.

Si direbbe che la lunga striscia di montagna che va, presso a poco, da Esperia, fra le valli dell’Amaseno e del Sacco per tutta la Provincia, sia stata travolta da un uragano. Restano i poveri paesini quieti e semidistrutti, le case vuote, gli alberi stroncati, le piane seminate di buche piene di acqua, le donne tristi, le giovani disorientate.

E il lavoro riprende lento e faticoso per coprire alla meglio qualche tetto, per aggiustare qualche ponte, per lavorare la terra, per migliorare le strade piene di buche.

In alcuni paesi le donne violentate sono state visitate e curate dai medici locali e dalle ostetriche pagandosi la cura.

A Pastena per mancanza di medici e medicine, non sono state affatto curate. Poche vogliono essere ospedalizzate; si cerca di provvedere alla cura ambulatoria”.

Anche a Lenola che in provincia di Littoria era stato uno dei centri più colpiti dall’orda dei violentatori “Molte donne passarono i mesi, a volte gli anni successivi, attraverso lunghe cure mediche sia per le malattie veneree, sia per le conseguenze delle percosse subìte”.

Le truppe del contingente francese seppero dar prova di tutta la loro crudele disumanità anche quando ‘liberarono’ l’isola d’Elba, come prova la dettagliata relazione sottoscritta in prima persona dal comandante generale dei Carabinieri Taddeo Orlando e che s’intuisce meditata e verificata parola per parola:

“Il 17 giugno 1944, alle ore 2 circa, avevano inizio le operazioni militari per la liberazione dell’Elba, che, superata la difesa – in alcune zone accanita – dei reparti tedeschi e repubblicani, veniva completamente liberata il 19 successivo. Le operazioni furono compiute da una divisione di fanteria coloniale degaullista, su due brigate (17.400 uomini), appoggiata da 10 batterie di medi e grossi calibri.

Trattavasi di truppe di colore (senegalesi e marocchini) inquadrate da ufficiali francesi, molti dei quali corsi. Terminate le operazioni, queste truppe si abbandonavano, verso la popolazione dell’isola, ad ogni sorta di eccessi, violentando, rapinando, derubando, depredando paesi e case coloniche, razziando bestiame, vino, ed uccidendo coloro che tentavano opporsi ai loro arbitri. Dettero l’impressione alla popolazione atterrita di voler sfogare un profondo sentimento di vendetta e di odio.

Gli ufficiali assistettero indifferenti a tanto scempio, soliti rispondere a coloro che ne invocavano l’intervento: “E’ la guerra…. sono dei selvaggi….. non c’è nulla da fare….. questo è nulla in confronto a ciò che hanno fatto gli italiani in Corsica”.

I più accaniti si dimostrarono i corsi.

Nella popolazione – che aveva atteso con ansia, durante lunghi mesi di persecuzione tedesca, il momento della liberazione – corse un’ondata di indignazione.

Abbandonata, si ritirò, dalle case, sulle montagne e attese il ritorno alla normalità, che si ebbe solo con la partenza di questi reparti, avvenuta 25 giorni dopo.

Perchè gli eccessi commessi e specie gli atti di libidine compiuti siano noti alle autorità centrali, l’Arma locale ha compiuto al riguardo diligenti accertamenti che hanno dato il seguente risultato statistico.

a) – VIOLENZE COMMESSE SU DONNE, RAGAZZE E BAMBINI:

n. 191 casi; oltre 20 tentate violenze su donne ed una su bambine.

b) – UCCISIONI:

In Capoliveri, ucciso il padre che tentava opporsi alla violenza su sua figlia (egualmente violata dopo l’assassinio del genitore); in Portolongone, uccisi due uomini che cercavano di impedire violenze sulle loro spose; in Campo Elba, uccisi due uomini che tentavano opporsi alla violenza sulle loro donne; ed altro uomo che voleva impedire il saccheggio della propria casa, in Portoferraio ucciso il padre che tentava opporsi alle violenze sulla propria figlia; trucidati due uomini mentre, da un rifugio, cercavano raggiungere la propria abitazione per prendervi generi da mangiare; ucciso un giovane studente da un sottufficiale corso “perché la di lui madre piangeva”; sempre in Portoferraio – durante il coprifuoco un soldato marocchino, infine, freddava, con due colpi di fucile, una ragazza del luogo ed un sottufficiale francese che si accompagnava con lei.

c) – RAPINE CONSUMATE:

Si possono calcolare a centinaia, per valore di milioni di lire (asportati – orologi, portafogli, valute, anelli, gioielli, ecc.).

d) – FURTI:

a migliaia, per un importo di milioni di lire.

e) – BESTIAME RAZZIATO:

n. 31 bovini, 23 suini, 46 ovini, 569 conigli, 675 polli. Vennero inoltre, asportati oltre 33.587 litri di vino.

f) – ECCESSI VARI:

venne – in territorio di Portolongone, incendiata una casa colonica, completamente arredata; sequestrati apparecchi radio, macchine da scrivere, mobili varii.

g) – Il comportamento verso l’Arma fu anche deplorevole.

Sottufficiali e carabinieri percossi e derubati di portafogli ed orologi.

Un carabiniere deportato in Corsica e rilasciato soltanto dopo 10 giorni. Le caserme saccheggiate e devastate”.

Altrettanto drammatica la situazione di Pianosa, occupata negli stessi giorni dell’Elba, dove le “truppe di colore francesi” tentarono di violentare due donne, saccheggiarono sistematicamente tutte le case dell’isola, rubarono gli animali della colonia penale e maltrattarono i carabinieri.

Ancora all’Elba, diversi mesi dopo la ‘liberazione’ un ufficiale della polizia francese cercò lite contro “alcuni comunisti, appartenenti a quella sezione [che] si esercitavano al tiro alla fune” e quando scoppiò la rissa alcuni “militari algerini” spararono all’impazzata.

Le truppe coloniali francesi si macchiarono di gravi delitti a sfondo sessuale anche sull’Amiata dove in varie località del comune di Arcidosso saccheggiarono a man bassa le fattorie, rapinarono chi trovavano sul loro cammino e si lasciarono andare alle peggiori violenze.

Nel pomeriggio del 19 giugno 1944 si presentarono in tre in una casa di campagna della frazione San Lorenzo ed uno di loro puntò un arma contro una donna “costringendola a congiungersi con lui. Compiuto l’atto il marocchino fu sostituito dal secondo ed infine dal terzo, quest’ultimo si rinchiuse nella stanza e dopo circa cinque minuti le donne che erano nell’altra camera udirono uno sparo poi videro uscire il marocchino che assieme agli altri si allontanò”. Quando gli aggressori se ne andarono i vicini trovarono la poveretta “distesa sopra un materasso, ferita gravemente alla testa da un colpo di pistola” che le causò la morte dopo qualche ora.

Lo stesso giorno altri tentativi di stupro andarono fortunatamente a vuoto per l’accorrere di molta gente mentre nella frazione Macchie altri tre marocchini obbligarono un giovane contadino ventenne a seguirli, lo rapinarono e poi “fattigli abbassare i pantaloni e le mutande lo costrinsero a terra dove a turno usarono su di lui violenza contro natura”. Il 29 giugno sette marocchini invasero una fattoria delle Macchie, immobilizzarono una giovane e “la costrinsero a terra ed a turno compirono su di lei violenza carnale e violenza contro natura”; il 1 luglio una donna sposata che stava raccogliendo foglie di castagno per le bestie in località Piave riuscì a stento a sfuggire all’aggressione di due marocchini mentre il giorno seguente in località Piane del Maturo altri due soldati coloniali “costrinsero con violenza” due donne “a congiungersi con loro”. Il 16 luglio un “militare di colore” fermò una donna nella campagna di Arcidosso e la stuprò, offrendole poi del danaro, ovviamente rifiutato dalla povera vittima.

Intanto, il 20 giugno a Santa Fiora un poliziotto italiano ed un finanziere intervenuti per impedire la violenza di due soldati marocchini contro una donna vennero fatti segno a colpi di pistola che ferirono gravemente la guardia di finanza.

Il 22 giugno cinque soldati marocchini penetrarono in una casa di campagna di Monticello di Cinigiano, immobilizzarono e rapinarono il proprietario, violentarono due ragazze e fuggirono. Una delle vittime si recò al comando francese di Montelaterone denunciando il misfatto “ma non ebbe soddisfazione essendole stato risposto che il comando doveva spostarsi”.

Ancora il 22 ed il 29 giugno proprio a Montelaterone gruppi di marocchini tentarono di violentare delle donne ma vennero messi in fuga dall’accorrere di diversi popolani.

Il 25 giugno due soldati algerini tentarono una violenza contro due donne di Sasso d’Ombrone; il giorno seguente “tre algerini, gabellandosi per americani e gente per bene” entrarono con l’inganno in una fattoria cercando di stuprare una ragazza diciottenne e quando giunsero i parenti in suo soccorso “incominciarono a sparare all’impazzata dentro e fuori la casa” ferendo tre uomini e dandosi alla fuga. Lo stesso giorno “due militari francesi, quasi certamente marocchini” picchiarono selvaggiamente una donna di Civitella Paganico che riuscì ad impedire le loro violenze contro la figlia diciassettenne.

Giunto a Monticello Amiata qualche giorno dopo il passaggio del contingente francese, un ufficiale medico italiano trovò fra la popolazione “un forte stato di eccitazione e di paura, conseguenza di alcuni reati perpetrati da truppe marocchine” che, fra l’altro, in un podere isolato mentre cercavano di violentare delle donne erano stati presi a fucilate dagli abitanti arrabbiati ed esarperati. I militari francesi “algerini o marocchini” avevano reagito uccidendo due italiani mentre sarebbe morto anche un militare alleato.

Fra il 1 ed il 3 luglio a San Quirico d’Orcia i soldati marocchini svaligiarono molte fattorie, violentarono una contadina ed uccisero un uomo disarmato. La notte del 18 luglio in località “Caprona” di Sociville strangolarono due contadini che li avevano denunciati per aver stuprato una quindicenne. Una settimana dopo a Barberino Val d’Elsa spararono contro un uomo che cercava di sottrarre le nipotine alle loro violenze ed a Poggibonsi alcune donne vennero picchiate selvaggiamente dai soldati coloniali francesi per essersi rifiutate di sottostare alle loro brame.

Quando ad ottobre del 1944 i francesi lasciarono la Toscana nessuno li rimpianse.

Al contrario, in val d’Aosta nella primavera del 1945 gli alleati d’Oltralpe erano stati accolti da molti valligiani come liberatori anche perché nella piccola regione di confine le istanze autonomiste e le spinte separatiste erano molto forti.

Del resto, in tutte le valli piemontesi di confine che cercavano di annettere i francesi avevano cercato di accreditarsi come ‘liberatori’ tentando di conquistare le simpatie delle popolazioni locali.

Le loro pretese finirono per scontrarsi con la seconda ondata della Resistenza partigiana capeggiata da Maggiorino Marcellin detto “Bluter” che alla testa dei suoi uomini temprati nella lotta ai nazi-fascisti li contrastò con un’efficace azione di vera e propria guerriglia, armi alla mano.

Paese dopo paese le valli piemontesi vennero sottratte all’influenza d’oltralpe, malgrado l’esistenza di un minuscolo movimento separatista, il “Groupe Anciens Dauphinois” creato da generosi ma ingenui indipendentisti, strumentalizzati dai servizi segreti francesi ‘degollisti’.

Quando le truppe francesi si fecero più aggressive, il 23 giugno 1945 gli uomini di Marcellin passarono addirittura all’azione terroristica, facendo esplodere una bomba in un caffé di Susa diventato quartier generale degli occupanti. Per tragica fatalità l’unica vittima fu una cameriera italiana, ma il messaggio giunse forte e chiaro e Parigi fece rimpatriare i suoi soldati.

Nella stessa val d’Aosta dove i ‘collaborazionisti’ filo-francesi erano molti e ben pagati appena si sparse la notizia che sul Piccolo San Bernardo le truppe ‘degolliste’ che scendevano in Italia erano composte da senegalesi si realizzò una impensabile unità d’intenti fra soldati dell’esercito di Salò ormai sconfitti e partigiani per far fronte comune contro la loro minacciosa presenza.

Quando poi i francesi occuparono Aosta non mancarono momenti di tensione e nel pomeriggio del 20 maggio in pieno centro si scontrarono diversi militari d’Oltralpe e due partigiani italiani “perchè questi volevano tagliare i capelli a giovane non potuta identificare”. Nel trambusto i francesi spararono, ferendo un incolpevole insegnante ed un operaio di 47 anni.

Ma l’episodio più drammatico avvenne il 10 giugno ad Introd dove il coraggioso comandante partigiano Sergio Vevey venne ucciso dai militari francesi che erano accampati nel paese. Solo dopo difficili indagini i carabinieri accertarono che Vevey morì perché “si era dichiarato apertamente contrario al movimento annessionista”.

I suoi assassini, mai identificati, rimasero impuniti.

Non vennero scoperti nemmeno i tre sconosciuti che il 19 luglio a Saint Vincent riuscirono con un espediente a caricare su un auto un militare sudafricano portandolo in aperta campagna e ferendolo a coltellate.

La guerra era finita ma gli scontri e le tensioni fra truppe d’occupazione e popolazione locale erano destinati a continuare.

Soprattutto, non cessarono le violenze delle truppe marocchine e dei francesi metropolitani contro povere donne indifese.

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Direttrice: Stefania Piazzo
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