di Roberto Gremmo – Qualche anno fa, per decisione sovrana del Parlamento, l’inno di Mameli è diventato niente meno che materia di studio nella scuola ma questo canto che piacerà di certo alla ministra dell’Istruzione si porta dietro un fardello pesante: l’ombra del plagio.
Il patriota e poeta da cui prende nome non sarebbe il vero autore ma lo avrebbe ‘scippato’ ad un povero prete.
L’accusa è pesante ma parte da uno studioso autorevole e di peso, il professor Aldo Alessandro Mola, uno storico di vaglio che, fra l’altro, è un cultore della memoria risorgimentale e non può essere accusato di pregiudizio anti-unitario.
In un libro prezioso e documentato, la “Storia della Monarchia in Italia” pubblicata alcuni anni fa da Bompiani, Mola ha ricostruito con dovizia di particolari la poco edificante storia dello studente genovese Goffredo Mameli che nel 1846 “sospeso dall’università e ricercato dalla polizia per una torbida vicenda” era stato accolto per i buoni uffici di suo padre nel Collegio dei Padri Scolopi a Carcare, nell’entroterra savonese.
Sembra che Mameli, giovanotto scapestrato e svogliato, interessato solo a giocare a pallone, fosse però svelto di lingua e di mano e godeva del favore del suo precettore, il padre Atanasio Canata, uomo di lettere e di profonda cultura e, oltre tutto, innamorato della causa italiana, sia pure con la benedizione papale, come vagheggiava Gioberti.
Prima dell’arrivo di Mameli, il poetico Cannata aveva dedicato un’ode al liberale Pio IX con un verso d’esaltazione alla causa unitaria che “la patria chiamava severa”.
“Ecco – scrisse Mola – “la patria chiamò” proprio come l’Italia del cosidetto Inno di Mameli”.
Era l’indizio rivelatore.
Assai credibile, soprattutto perché lo spessore culturale e tutti i richiami storici della composizione mal si conciliavano con la pochezza intellettuale di un ragazzotto che nella lettera inviata allora ad un amico mostrava scarsa dimestichezza con la lingua italiana scrivendo di essere “morto di sogno” invece che ‘di sonno’.
Tutta un’altra stoffa quella del Canata che era poeta, autore di testi teatrali e uomo di lunghi e severi studi classici.
Approfondita la ricerca, Mola ha finito per convincersi che il famoso canto sarebbe stato abilmente sottratto all’autore, quel povero prete che poté solo manifestare rabbia e sconcerto bollando in un dimenticato libello come “gazza garrula e ladra” il ragazzotto che s’era preso meriti e onori spedendo il testo della composizione all’amico Michele Novaro che lo musicò seduta stante.
Naturalmente, la denuncia di Mola provocò la reazione stizzita di Tarquinio Maiorino, Giuseppe Tricamo ed Andrea Zagami, autori del libro “Fratelli d’Italia, la vera storia dell’inno di Mameli” ma la loro replica è parsa subito debole e balbettante.
Di certo c’è che il foglio originale ed autografo dell’inno è andato (stranamente) perduto.
Nelle copie coeve il testo è spesso diverso da quello oggi in voga e, ad esempio, in quella conservata negli archivi della “Società Economica” di Chiavari inizia con l’appello ai “Figli d’Italia”.
Purtroppo per Canata, l’Italia che si stava (mal)unendo con forte impronta anticlericale non poteva certo rendere giustizia ad un prete mentre doveva mitizzare ed omaggiare Mameli; morto il 6 giugno 1849 nella difesa della famosa “Repubblica Romana”.
E poco importava, anzi era meglio dimenticarlo, che Mameli era stato ferito mortalmente non dalla reazione in agguato ma da uno sbadato commilitone che lo aveva accidentalmente ferito sparandogli ad una gamba che s’infettò, costrinse i medici all’amputazione senza poter salvare la vita al giovane volontario.
Se davvero il plagio fosse ulteriormente provato, l’averne imposto lo studio nella scuola sarebbe davvero una scelta sbagliata perché potrebbe suggerire a qualche studente malandrino l’idea balzana che, in fondo in fondo, scopiazzare può essere utile ed opportuno.
Forse era meglio esser cauti.
Per di più, nel testo dell’Inno (ma chi lo conosce?) non mancano riferimenti ‘ideali’ di dubbio valore pedagogico.
Inneggia ad esempio a quel Balilla (preso a modello anche per i ragazzi fascisti) che non capeggiò una rivolta contro “lo straniero” ma si oppose alle truppe austriache che occupavano Genova per favorire Carlo Emanuele III di Savoia, antenato dei re d’Italia.
La storia è sempre complicata e non si può comprimere in strofe poetiche, gonfie di retorica e suggestive.
All’aggressivo e militarista richiamo alla vittoria “schiava di Roma” preferisco di gran lunga l’inno che, secondo una suggestiva tradizione tramandata dal poeta Tòni Baudrier, sarebbe stato cantato dai bersaglieri piemontesi in Crimea, dopo la vittoria di Sebastopoli quando gli eserciti alleati furono invitati ad intonare i loro canti nazionali.
Marzialmente inquadrati, gorgheggiarono impettiti francesi ed inglesi ma quando toccò ai piemontesi, i nostri contadini spediti alla guerra, ignorando del tutto la “Marcia Reale” composta nel 1931 da Giuseppe Gabetti, non avrebbero saputo far altro che cantare la “Monferrina” dei balli popolari, fidando nel fatto che nessuno poteva capire il loro ‘dialetto’.
Meglio un bonario “bondì, bondì” che un bellicoso richiamo guerrafondaio all’elmo di Scipio.