L’INTERVISTA – Lincetto, dalla musica in rete non guadagnano gli autori ma chi la svende

25 Maggio 2020
Lettura 11 min

di Giiovanni Polli – La musica, il futuro di quest’arte e dell’arte del suono e di chi le pratica, la politica e lo scenario che si apre dopo un’emergenza pandemia che è tutt’altro che passata. In questa lunga e articolata chiacchierata con Marco Lincetto, vero e proprio “artigiano della produzione discografica”, affrontiamo argomenti tutt’altro che marginali, dal momento che nella filiera musicale diretta o indiretta lavorano centinaia di migliaia di persone se non di più, e il settore era già di quelli molto a rischio anche prima del Covid.


Nato a Padova nel 1961, figlio del grande compositore e pianista Adriano Lincetto, Marco Lincetto ha alle spalle studi musicali e giuridici. Personaggio eclettico ed artista completo, fotografo professionista, nel 1992 inizia l’attività professionale come produttore discografico e ingegnere del Suono. Nel 1995 fonda l’etichetta discografica indipendente Velut Luna – tuttora regolarmente operativa sotto la sua direzione – in cui ricopre e svolge tutti i ruoli tecnici e artistici. Insomma, un osservatore diretto di un mondo fortemente in pericolo, in particolare in Italia.

Marco, la musica è nei guai seri. Lo era già prima del Covid ma ora, con tutto il resto del settore dello spettacolo, è un settore veramente a rischio miseria e disoccupazione. Tu ti occupi in particolare di produzioni discografiche, ma hai certo la percezione di quale aria tiri tra gli artisti e l’enorme quantità di persone che lavorano in questo mondo…
«Parliamo dell’Italia, che è il terreno di battaglia che conosco meglio. La musica non è MAI, e sottolineo MAI, stata in cima agli interessi delle pubbliche istituzioni e pochino anche fra i cosiddetti “privati”. Il regime pubblico ha sempre e solo favorito quegli artisti che potremmo a buon diritto definire “di regime”, i musicisti con la tessera in tasca. E mi riferisco ovviamente a quella tessera lì… quella che in Italia ha sempre aperto tutte le porte. La cosiddetta sinistra ha sempre avuto il cosiddetto “complesso di Gesù”, ovvero si è sempre arrogata il diritto di essere depositaria della Kultura, proprio con la K. In realtà, la Cultura, quella con la C, è sempre stata trasformata in Kultura con la K, ovvero ridotta alla stregua di una patacca di latta dorata da appiccicare sull’uniforme del partito. E questo vale e differente titolo sia per la musica cosiddetta classica che per gli altri generi musicali. Ma se il pop, il rock, e generi “leggeri” hanno potuto contare su un vasto consenso popolare che ha loro consentito di auto sostenersi dal punto di vista economico – anche se pure fra roKKettari e poPPettari si è sempre rilevata una “quota politica” orientata in una certa direzione – nel mondo della classica, sempre e inevitabilmente più elitario nei numeri, la differenza fra il vivere e il morire l’ha sempre discriminata l’appartenenza a una certa parte politica».


Qualche esperienza diretta? Qualche esempio?
«Qualche anno fa ho spinto la mia provocazione pubblicando un disco intitolato “Gli invisibili” e dedicato ad un autore, e uno scrittore, e un pittore, mai allineati al Politbureau e quindi regolarmente ignorati dal sistema. E guarda caso, il disco, è passato inosservato, soprattutto da parte dei vari organi di promozione di riferimento… Oggi, in questo momento di oggettiva crisi globale del sistema e con il Potere affaccendato a lottare per la propria autoreferenziale sopravvivenza, l’ultimo dei suoi pensieri è quello di occuparsi di quella patacca dorata e di coloro che dietro a quella patacca si sono protetti finora. E figuriamoci degli altri.
Il momento per il mondo della musica è un “si salvi chi può – ultimo avviso” e la mia preoccupazione è che veramente molto pochi potranno salvarsi. L’immagine che mi sembra più appropriata per descrivere la situazione attuale è quella famosa scena del film Titanic in cui, mentre la nave è completamente piegata su un fianco, l’orchestrina di bordo si mette a suonare con i mezzi guanti sul ponte, in attesa dell’inevitabile affondamento.
Certo, proprio questa mattina mentre scrivo, il 23 maggio, leggo la notizia in pompa magna del primo grande concerto di Musica Classica dopo il lockdown… E di cosa si tratta? Chi ne sono i protagonisti? Forse un gruppo giovane che propone musica inedita e magari stimolante ancorché bellissima? No, si tratta di Riccardo Muti, che dirige l’Orchestra Cherubini, in un programma di “best favourites” mozartiani (ovvero uno dei tre unici autori conosciuti dal 95% delle popolazione “generalista”) in inaugurazione del Ravenna Festival. Questo fatto, tradotto, significa: il più noto e popolare direttore d’orchestra italiano, alla testa di un’orchestra fortemente sostenuta da sempre da finanziamenti pubblici, all’interno dei uno dei più noti Festival di musica classica a sua volta fortemente sostenuto da contributi pubblici. Il tutto benedetto e consacrato dalla diretta RAI e dalla presenza del ministro Franceschini (Pd, che in questo caso non è la sigla della provincia di Padova…). Come volevasi dimostrare. Naturalmente con tutto i doveroso rispetto verso il grande Maestro Muti e l’immenso Mozart, di cui certamente non sarò io a voler sminuire l’importanza e il valore… ma spero sia chiaro dove risiede la mia pur sommessa critica verso queste scelte “politiche”».

Ma al di fuori della musica classica?
«Fra i comuni mortali, paradossalmente, se qualcuno ha qualche chance di salvezza e di superara la crisi, queste potrebbero essere proprio quelle maestranze che ruotano attorno ai grandi nomi del pop e del rock, se questi artisti blasonati e super-ricchi che sono i Baroni della musica popolare decideranno di mettere mano ai loro personali portafogli per aiutare i loro fidi collaboratori, se non altro per non ritrovarsi, a buriana finita, a dover ricostruire da zero lo staff. Mi risulta che un buon segnale lo abbia dato Vasco Rossi, che senza troppo clamore mi risulta abbia deciso di sostenere economicamente le proprie maestranze in questa ora buia. Certo, dallo Stato e/o dal pubblico non possiamo aspettarci, per i più differenti motivi, nulla.

Oggi, un po’ come avviene per le notizie si ha la sensazione, ovviamente falsata, che la musica sia gratis. Se il supporto fisico dava l’idea, per copie vendute, del successo di un prodotto o di un’opera artistica, che ritorni economici ci sono oggi con la rete per gli artisti e chi ancora ha il coraggio di investire nella registrazione e diffusione della musica? Detto in altre parole, quanto pagano piattaforme come Spotify, per citare oggi forse la più conosciuta?
«Parto dalla seconda domanda. Questo problema, ovvero come dici tu, la percezione da parte del pubblico che la musica debba essere gratis, è il problema principale già da almeno una decina d’anni, ovvero da quando le “autostrade digitali” hanno implementato la loro forza di penetrazione grazie all’evoluzione delle piattaforme e l’enorme velocizzazione della trasmissione dati.
Ora, è difficile capire se è nato prima l’uovo o prima la gallina… fatto sta che uno dei motivi che pare abbiano spinto la nascita delle piattaforme di streaming pare proprio sia stato il tentativo da parte delle grandi majors di stroncare definitivamente la cosiddetta piaga della pirateria on line.
In realtà è apparso subito evidente che non poteva trattarsi che di una vittoria di Pirro, perché se il prezzo da pagare per sconfiggere i ladri è di fatto regalare legalmente la musica… tu capisci… Sì, perchè citando proprio Spotify devi sapere che le ripartizioni lorde per un singolo click a favore della casa discografica / artisti sono pari a 0,0001 euro oppure 0,001 a seconda che l’utente che ha fatto click sia un utente con abbonamento free oppure “premium”, ovvero uno di quelli che costano addirittura 9,99 euro AL MESE. Siamo alla follia. L’atteggiamento con cui ci poniamo noi verso i siti di streaming è quello della rassegnazione al fatto che se non stai lì, sei definitivamente cancellato dall’immaginario collettivo. Un qualche vantaggio almeno sul piano della visibilità resta agli artisti, che però valeva soprattutto all’inizio dell’avventura, mentre oggi o fai almeno un milione di ascolti al mese – che non è facile – oppure è come se non esistessi, pure su Spotify.
E adesso mi faccio io una domanda: chi guadagna da tutto ciò? e mi dò la risposta: ovviamente guadagnano i detentori delle… autostrade! Ovvero i proprietari dei mezzi di comunicazione su cui si appoggiano i portali, ovvero le compagnie telefoniche. E come vedi, come in ogni bel gioco dell’oca, si torna sempre alla casella iniziale.

Alla luce di tutto ciò, per venire alla prima delle due domande, bisogna distinguere abbastanza nettamente fra il lavoro delle major discografiche – che poi ormai sono al massimo 3 o 4 a livello mondiale – e tutti gli altri. Con certezza, e questo vale per tutti, la produzione discografica può reggersi solo se attorno si costruisce un business parallelo. Le major hanno gioco facile, soprattutto con i grossi nomi dei loro cataloghi, riuscendo a costruire tutto un merchandising tipico della star, e non ultimo l’importante giro dei live.
In generale una buona anche se difficile strada anche per gli indipendenti era quella di creare una vera agenzia di booking parallela all’attività di produzione. Dico “era” perché quel bel giocattolino virale, sì, insomma: il Gino-Virus… ha per il momento spazzato via ogni chance di live per chissà quanto tempo. Un’ultima possibilità, su cui soprattutto le major, ma anche noi indipendenti con una grossa storia produttiva alle spalle, sono i possibili proventi dalle ripartizioni dei diritti di riproduzione fonomeccanica e dei diritti d’autore tout-cort, nel caso in cui il produttore discografico sia anche editore musicale. Ancora una volta a farla da padrone sono i grossi gruppi che di fatto monopolizzano i mezzi di comunicazione e pubblica diffusione della musica, dalle radio alle televisioni, al web. Ma qualche briciola cade addosso anche a noi indipendenti per così dire “minoritari”».

I tuoi prodotti discografici, purtroppo o per fortuna, si rivolgono ad una nicchia di appassionati musicofili e anche a quei curiosi personaggi chiamati “audiofili”, ovvero persone che forse, più che il piacere della musica, ricercano la perfezione nella qualità tecnica della sua riproduzione. Un “optional” che non manca certo in ciò che registri e produci. Anche nel tuo campo, come avviene in altre “nicchie di eccellenza” le tue produzioni forse soffrono il mercato in proporzione un po’ meno rispetto ai dischi di largo consumo?
«Assolutamente no. E mi spiego. Certo, se ancora vendo qualche decina di Cd o qualche vinile (veramente pochissimi), il 90% degli acquirenti li identifico in questo particolarissimo pubblico: ma solo perché i cosiddetti “audiofili” sono gli ultimi dei Mohicani a comprare ancora i supporti… Già ora, anche fra questi sta passando la moda dello streaming, grazie a piattaforme a loro dedicate che propongono files con una decente risoluzione, paragonabile a quella del CD, che stanno definitivamente uccidendo anche il mercato audiofilo».

Pensi che sia possibile – sempre tenendo conto del post Covid che non è ancora iniziato – un ritorno pur limitato al supporto musicale, cd o vinile, in contrasto alla “smaterializzazione” del prodotto artistico, soprattutto dove c’è voglia di altissima qualità tecnica? Si ha l’impressione che i Kindle non ce la facciano proprio a rimpiazzare i libri di carta, come emozione dell’approccio all’opera d’arte.
«No, i supporti, qualunque supporto, è destinato alla scomparsa in tempi brevissimi. Così come dicevo nella risposta precedente. Forse sopravviverà il grande zombie commerciale che è il vinile, ma in numeri sempre più ridotti, sempre più costosi e sempre tassativamente confinato a quei diciamo 300 titoli storici fra classica rock e jazz anni ’50, ’60 e ’70, che certo limitatissimo pubblico, comunque in via di estinzione, continuerà ossessivamente e compulsivamente a comprare in qualunque nuova edizione verranno proposti… Non c’è spazio quindi per “nuove” produzioni in questo formato: già ora non se le fila quasi più nessuno… Tieni presente poi un altro elemento importantissimo, per quanto riguarda ad esempio i CD: le grandi case dell’elettronica di consumo NON costruiscono più i lettori… E soprattutto nelle automobili NON è più disponibile il lettore CD… praticamente tutte le grandi case automobilistiche lo hanno eliminato di serie».

Nel tuo lavoro è facile e corretto considerarti un vero artigiano, per la cura nella scelta degli artisti e dei mezzi tecnici con cui realizzi i tuoi lavori. La qualità, quando il grande pubblico è abituato ad avere “tutto gratis” ciò che gli viene fatto ingurgitare dalle “proposte televisive”, prima tra tutte quelle dei famigerati “talent show”, riesce ad avere comunque un suo spazio? E quanto grande?
«La qualità sonora è ormai ricercata solo da una nicchia della nicchia, direi in Italia forse 2000 appassionati, che fra l’altro credo più o meno di conoscere tutti personalmente. E questo la dice lunga sulla fine… Il resto della popolazione invece cerca esattamente il contrario della “qualità sonora”: cerca musica ipercompressa facilmente fruibile con device di scarsa qualità e soprattutto “senza picchi dionamici”, ovvero fruibile come sottofondo alle altre attività quotidiane.
Il discorso sulla qualità artistica va di pari passo con quella tecnica, ovvero il grande pubblico cerca musica di facile e immediato ascolto, musica basata su sviluppi armonici basilari, senza particolari modulazioni “distraesti” e scansione ritmica in 4/4… musica conciliante e non invasiva, quella considerata “gradevole” dai più , da cui il successo imbarazzante di certi entertainer, tipo alcuni noti pianisti consacrati idoli delle masse… Per i cosiddetti “’gggiovani” (con tre “g” e l’apostrofo prima della prima “g”) è pure peggio, nel senso che la musica che ascoltano serve solo per accompagnare testi volgari, spesso violenti, che inneggiano ad un nichilismo autodistruttivo. I suoni devono solo sottolineare la violenza del testo e far muovere loro le mani e le gambe nei quasi rituali sabba infernali che sono diventati i luoghi di aggregazione. Ma anche a questi il Gino Virus ha posto un freno… quindi “dopo” vedremo se e come riprenderanno».

Ultima considerazione generale. Oltre al tuo lavoro, non riesci ad astrarti dal vivere le enormi considerazioni di questa nostra epoca, in particolare in questa fase in cui sono saltati tutti i già pochi riferimenti che avevamo. Sei presente sui social dove spesso esprimi la tua opinione su argomenti che esulano dal tuo campo specifico. Un modo per far parlare del tuo lavoro o una spinta interiore ad un impegno che in generale pare sempre più latitante, nella società civile?
«Guarda, la mia attività sui social è letteralmente la “bestia nera” per tutti i miei più stretti collaboratori… Il buon mercante non deve mai esprimere pubblicamente il suo pensiero politico – sociale – economico: il buon mercante deve essere un arlecchino servitore simpatico di tutti i “padroni”. Il mio impegno pubblico sul fronte civile è una delle cose che fa più male commercialmente alla mia attività. Anche perché il mio è un pensiero LIBERO, che quindi alla fine risulta scomodo a qualunque eventuale parte politica. E quindi lo faccio “solo” perchè io sono un UOMO… tutto maiuscolo. E non riuscirei a dormire la notte se non lo facessi, visto che ancora, e grazie alla mia storia personale, riesco a far stare in contatto fra loro i neuroni presenti nel mio cervello e quindi riesco a mantenere una visione della vita e del mondo oltre il rumore di fondo della dis-informazione mainstream. E purtroppo per molti, riesco ancora a fare una sintesi delle tantissime cose che accadono, ricavandone, credo, una visione della vita indipendente e spesso controcorrente. Come diceva il grande Faber…: “in direzione ostinata e contraria”».

In conclusione: musica e società. Prendi dalle tue attrezzature la sfera di cristallo e sbilanciati in una previsione sul loro futuro…
«Per quanto riguarda la Musica, ovviamente non svanirà, ma sarà sempre più strumentalizzata a un ruolo di contorno alle mansioni basiche dell’esistenza umana, che a sua volta sarà presto e definitivamente asservita a poche grandi corporazioni mondiali che governeranno con braccio di ferro e con la longa manus dell’informatica app-licata all’intera umanità.
Ma per un ragionamento più articolato su questa ultima domanda che – segnalo ai lettori – NON era concordata, rimando tutti al mio prossimo, primo articolo a mia firma, che questo bellissimo organo di informazione che è La Nuova Padania ha accettato di pubblicare nei prossimi giorni e che spero possa rappresentare l’inizio di una bella collaborazione, nella mia altra veste di editorialista e autore!»

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Direttrice: Stefania Piazzo
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