L’esame di maturità all’italiana non esiste più in nessuna parte di Europa

14 Marzo 2021
Lettura 5 min

di Giovanni Cominelli – Il Covid è davvero un motore rivoluzionario. Sta spingendo verso l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Non che alle viste ci sia un qualche progetto di riforma/cancellazione di qualche legge ordinaria o costituzionale relativa al suddetto valore. Anche perché “il valore legale del titolo di studio non è un istituto giuridico, è solo la conseguenza di un complesso di disposizioni che ricollegano un qualche effetto al conseguimento di un certo titolo scolastico o accademico” (cfr. Servizio Studi del Senato).

L’articolo 33, quinto comma, della Costituzione lo stabilisce indirettamente, quando prescrive un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole, per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Il titolo di studio non è necessario per l’esercizio della professione, bensì per l’ammissione all’esame di Stato, che però a sua volta è necessario per l’esercizio della professione.

Era partita già a dicembre 2020 una petizione di alunni per abolire l’esame di maturità 2021, condita anche con l’invocazione supplementare previdente a non allungare l’anno scolastico fino alla fine di giugno, “per non perdere le vacanze estive” (sic!).
Ma ancor prima che arrivasse il Covid, l’esame di maturità stava perdendo la forma dell’anello di fuoco, dentro il quale bisogna saltare per entrare nella vita. Salvo, ovviamente, per quei giornalisti/opinionisti, che ricordano con trepidazione la loro eroica notte prima degli esami.

Un paio di grafici forniti dall’Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione) illuminano egregiamente la deriva più recente dell’esame di maturità, che quest’anno dovrebbe svolgersi senza prova scritta.

Partendo dal primo, è evidente la lievitazione dei voti dell’anno 2020, che ha interessato in modo omogeneo tutte le regioni, pur se i differenziali reciproci rimangono invariati. Un qualche peso l’ha senza dubbio avuto l’assenza delle prove scritte, che necessariamente trattengono verso il basso le valutazioni, causa la maggiore difficoltà obiettiva e la minore possibilità di “adattare i voti”. Ma la ragione di fondo è stato l’invito da parte del Ministero dell’Istruzione a promuovere. Di fatto si è trasformato in obbligo. Come differenziare a questo punto? Se a tutti spetta un 60, come in tempo di guerra, allora si diversifica verso l’alto.

Il secondo grafico, noto solo negli ambienti specialistici, e quasi per nulla divulgato, illustra la differenza di valutazione delle competenze degli studenti in Matematica, Italiano e Inglese di 5° anno effettuata da Invalsi (linea blu nel grafico), attraverso prove standardizzate somministrate via computer, e la valutazione offerta dagli esami di maturità, sempre regione per regione.

Il grafico dimostra che costantemente, a partire dall’inizio della rilevazione Invalsi nel 2013, al Nord e in parte del Centro il voto di maturità è inferiore alla valutazione Invalsi, in alcune regioni del Centro i giudizi sostanzialmente coincidono, mentre al Sud e nelle Isole avviene l’inverso. Laggiù la curva dei voti della maturità sale, quella della valutazione Invalsi scende. Le regioni migliori? La Calabria e, appena dietro, la Puglia e la Campania.

Con o senza la prova scritta, lo scarto tra il livello dei voti dell’esame e quello delle valutazioni Invalsi non si sposta.
E le percentuali dei promossi? A caso: nel 2015 il 99,4 per cento; nel 2017 il 99,5 per cento; nel 2020 il 99,5 per cento. Con i voti cum laude in aumento.

Questi dati costringono, qualora presi sul serio, a due ordini di riflessioni: uno sulle modalità e sul valore della certificazione delle conoscenze/competenze in uscita, l’altro sul valore legale del titolo di studio.

Ad primum: è evidente che un esame siffatto, pomposamente ormai chiamato “esame di Stato”, non verifica più nulla. Tanto vale abolirlo.

Puntare tutto sulla valutazione finale dell’esame di Stato deresponsabilizza docenti e studenti, perché svaluta i giudizi lungo il percorso.

La questione irrisolta è, in effetti, quella dei criteri e delle procedure della certificazione effettiva delle competenze. Che non funziona.

Per rendersene conto, basterebbe fare una ricerca sull’uso della lingua scritta nelle tesi di Laurea, nei talk-show, negli articoli dei giornali, nei discorsi pubblici e nei social. La lunga guerriglia contro i congiuntivi, gli ottativi, i condizionali e le preposizioni è in atto da tempo. Si sta svolgendo ogni giorno nel Parlamento e nei Ministeri. Che dire dell’allenatore della mia squadra del cuore – l’Atalanta – quando lo sento lamentare che l’espulsione di Remo Freuler è un «suicidio al calcio»?.

Ma, Covid a parte, l’esame di maturità all’italiana, con il suo carico di ansia, stress, costi e nulla di certificazione reale, non esiste più in nessuna parte di Europa.

In Inghilterra, non è altro che un diploma di abilitazione, il GCSE (General Certificate of Secondary Education) chiamato ”A-Level”, che conseguono solo i ragazzi con i voti più alti. L’esame di Stato non è organizzato dalle scuole ma da istituti o enti specializzati e si concentra solamente su tre materie, scelte dal maturando tra quelle più indicate per iscriversi alla facoltà universitaria preferita, che dovrà rimanere quella, senza possibilità di ripensamenti. L’esame è suddiviso in due parti: l’AS, che si tiene il penultimo anno di scuola dell’obbligo sul 50 per cento dei rispettivi programmi, e l’A2, che si svolge al termine del percorso di studi superiori.

In Germania, l’Abitur viene rilasciato da commissioni interne sulla base del percorso dello studente negli ultimi due anni di scuola. Con un esito positivo praticamente per tutti. Però il voto farà una grande differenza: se è molto buono, lo studente potrà decidere di iscriversi a qualsiasi università. Se invece il risultato è scarso, l’Università sarà scelta dall’Ufficio Centrale per il Collocamento degli studenti negli Istituti Universitari.

In Olanda, l’esame di Stato è in realtà un test di ammissione alle Facoltà universitarie a numero chiuso.

In Svezia, gli studenti devono superare dei test di valutazione durante il percorso di studi. I test sono preparati dalle singole scuole e dall’Agenzia nazionale per l’educazione. I professori sono liberi di decidere in quale momento sottoporre gli studenti ai test. Le valutazioni ottenute durante il percorso di studi determinano il punteggio finale che viene assegnato a ogni studente. Per iscriversi all’università, i requisiti richiesti variano a seconda degli atenei.

E, in Francia, per ottenere il BAC, abbreviazione di baccalauréat, gli studenti vengono valutati una prima volta durante il penultimo anno di scuola e devono sottoporsi a esami anonimi, valutati da una commissione esterna. Le bocciature superano mediamente il 20 per cento. Per accedere alle Grandes Écoles serve, però, un anno di studi supplementare e il superamento di un esame di ammissione.

Quanto al valore legale del titolo, è ormai chiaro che si tratta di disvalore legale, tenuto artificiosamente in piedi come pigra e burocratica modalità di reclutamento della Pubblica amministrazione. Non ci vuole un Musil per osservare che è “senza qualità”.

Per gentile concessione dell’autore tratto da linkiesta.it

Giovanni Cominelli laureato in filosofia con Enzo Paci. Consigliere comunale a Milano nel 1980 per il Pdup, consigliere regionale dal 1981 al 1990 per il Pci. Dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Cdo dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Collabora a Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative sul Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009)

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