di CHIARA BATTISTONI – «Do-ca-kuka»: suona così la parola giapponese, applicata al mondo della gestione aziendale, che in estrema sintesi significa “vivere sulla propria terra” o “rendere indigeno”. Nella cultura del Sol Levante il termine individua una vera e propria tecnica di governo dell’impresa, applicata dai primi anni Ottanta per trovare la giusta combinazione tra istanze globali e istanze locali. Nella cultura occidentale, tradotta col termine inglese “glocalism” (glocalismo per noi) esprime la medesima tendenza, applicata però in senso lato.
Scriveva al proposito Ralf Daherndorf già parecchi anni fa: «Noi sappiamo che la globalizzazione è intrinsecamente una tendenza ambigua, duale, nella quale la gente è attratta verso il più vasto mondo ma anche verso il conforto del vicino più prossimo. Essa ha dunque prodotto anche un rafforzamento della spinta verso il locale, un’aspirazione a portare le decisioni a quel livello» – (da Dopo la democrazia, Ralf Dahrendorf – pag 25 – Editori Laterza).
In un mondo sempre più globale, il richiamo del locale è quanto mai forte, spesso legato a rinnovate quanto urgenti richieste di sicurezza. Se da una parte si chiede un crescente coordinamento delle forze di sicurezza mondiali, per esempio, è altrettanto vero che per agire sul territorio occorrono forze locali, ben inserite nel tessuto con cittadini responsabili e informati, che sappiano vigilare all’interno delle piccole comunità di pertinenza. Tra le tante riflessioni che gli eventi drammatici di quest’estate già piena di morte e paura suscita, c’è anche un approccio diverso al mondo aperto che per tanti anni abbiamo creduto di abitare.
La sicurezza che andiamo cercando potrebbe passare da un approccio glocale e a rete, agile, che sia capace di riconfigurarsi tempestivamente in funzione delle necessità. D’altro canto una strategia di questo tipo è già stata adottata tempo fa da numerose multinazionali per gestire i problemi (certo meno gravosi) di sicurezza delle informazioni; è il cosiddetto modello federativo in cui le unità costitutive agiscono autonomamente coordinate dai principi generali condivisi. Si tratta dunque di trovare un modello che permetta di contemperare globale e locale, nel rispetto delle specificità.
Ci ricorda Edgar Morin: «Il doppio fenomeno dell’unità e della diversità delle culture è fondamentale. La cultura mantiene l’identità umana in ciò che essa ha di specifico; le culture mantengono le identità sociali in ciò che esse hanno di specifico Le culture sono apparentemente chiuse in se stesse per salvaguardare la propria identità singolare. Ma di fatto sono anche aperte: integrando in sé non solo saperi e tecniche, ma anche idee, costumi, alimenti, individui venuti da altri luoghi. Le assimilazioni da una cultura all’altra sono arricchimenti». (da «I sette saperi necessari all’educazione del futuro» – Edgar Morin – pag. 58 – Raffaello Cortina Editore).
Se le assimilazioni sono arricchimenti, quanto gioca la dimensione delle comunità in questo processo? Probabilmente più di quanto si possa immaginare; quando la comunità è piccola è più semplice tutelare le proprie specificità ma è anche più facile scegliere le strategie, vigilare sulle integrazioni e stemperare gli attriti. Siamo proprio convinti che grande sia sinonimo di stabilità, sicurezza e prosperità?
Stando ai numerosi indici di misura delle competitività, della libertà, della globalizzazione sono proprio gli Stati più piccoli (in media al di sotto dei 10 milioni di abitanti) a realizzare i migliori risultati.
Il Centro di ricerca e documentazione “Luigi Einaudi”, Lazard e il Fraser Institute di Vancouver (www.freetheworld. com ) presentano spesso i risultati dell’Indice Mondiale della Libertà Economica (Efw) costruito misurando il peso dello Stato, il sistema legale e la tutela dei diritti di proprietà, l’accesso a un sistema monetario monetario stabile, la libertà del commercio internazionale, la regolamentazione del credito, del lavoro e delle attività economiche.
La classifica finale vede in cima Hong Kong, Singapore, Nuova Zelanda, Svizzera, Regno Unito, Usa, Australia, Canada, Irlanda, Lussemburgo, con l’Italia in coda.
Con eccezione di Usa e Canada (comunque costruiti su un sistema federale) si tratta di Stati piccoli. Tutti temi che Gilberto Oneto, nel suo recente libro Piccolo è libero (Leonardo Facco Editore, 2005) ha ampiamente approfondito e documentato, affrontando i vantaggi e gli affrontando i vantaggi e gli svantaggi dell’essere piccoli tra i grandi.
Sottolineava Oneto: «Non esiste alcuno schema di Microstato tipo, proprio perché i piccoli Stati costituiscono la negazione dell’omologazione e nascono per soddisfare esigenze e condizioni particolari sempre diverse. I riferimenti fondativi vanno ricercati nel Diritto Naturale, nella Tradizione e nelle forme di espressione della consociatio symbiotica che Althusius pone alla base di ogni struttura comunitaria liberamente espressa. Per questa ragione sono esistiti ed esistono numerosi tipi di piccoli Stati diversi fra di loro, proprio perché sono espressione organizzata delle diversità» (da Piccolo è libero di Gilberto Oneto, Editore – pag. 23).
E ancora, a proposito di piccolo è libero: «Ogni problema va affrontato sulla base del principio di sussidiarietà e tutto quello che non può essere affrontato e risolto a livello locale può esserlo mediante forme di aggregazione di entità diverse. Il marchingenio magico si chiama federalismo che può essere coniugato in tutte le sue molteplici varietà e sottovarietà, che sono in grado di soddisfare praticamente tutte le esigenze» (da Piccolo è libero, – pag. 23). Forse per questo, oggi come mai prima in Europa, Stati Uniti e Australia, ci ricordava Oneto, si assiste al fenomeno della gemmazione di Microstati, iniziative che esprimono la voglia di libertà e la fuga dall’omologazione.