Giorni della memoria. Basta un giorno all’anno?

12 Febbraio 2021
Lettura 2 min

di Giuseppe Rinaldi – Giorno della Memoria (Olocausto), Giorno del Ricordo (Foibe), Giorno delle Donne (Diritti negati).

Tutto bene e meritorio, ma la domanda è una sola: si può con un giorno l’anno risarcire le sofferenze diuturne che gli eventi oggetto del “ricordo” hanno causato in perpetuo a quanti ne furono tristi protagonisti, per poi chiudere lì e arrivederci? La risposta è: no!

Possono, un giorno l’anno, mille bandiere sventolate in mille cortei, tra mille parole affabulanti, sgretolare il macigno che sta sugli animi dei superstiti provenienti dai campi di sterminio nazisti? Ovvero, possono, allo stesso modo, un giorno l’anno, cento stendardi, dare pace alle vittime delle foibe jugoslave, alla provvisorietà del vivere quotidiano dei mille e mille italiani profughi dalle terre di là dall’Adriatico? Non possono.

E poi, così come nella vita, anche nella morte si è difficilmente uguali, se è vero che le anime dei corpi straziati dalla violenza nazifascista hanno visto processi e condanne dei loro aguzzini (certo ne meritavano di più), mentre quelle le cui membra sono state sfracellate nelle fenditure carsiche della Jugoslavia, hanno inutilmente atteso un risarcimento analogo.

Senza contare che c’è chi il giorno della memoria non l’ha.

Sono i non meno importanti connazionali che decisero di rimanere in quelle terre ormai inospitali, dove erano in agguato strisciante i giorni bui della “disitalianizzazione” personale e dei luoghi attorno ad essi. Fu un periodo durissimo giacché pagarono, in un contrappasso dantesco, lo scotto della politica di snaturalizzazione perpetrata dal fascismo nei confronti dei locali.

Perché rimasero? Qualcuno sperava in un clima di pacificazione; qualcun altro vedeva un anelito di libertà portata dai fratelli comunisti slavi; altri, ancora, cedettero nella possibile fratellanza tra le due realtà politiche così come affermato dai programmi del nuovo governo. Molti, infine, non ebbero cuore a staccarsi dalla loro terra d’oltre mare. “La Città Dolente”, film del 1948, firmato da Mario Bonnard, è uno dei rari documenti che rammentano questo spaccato di vita. Quando uscì nelle sale, era il 1949, non ebbe grande successo. La TV l’ha valorizzato attraverso qualche passaggio televisivo e la critica l’ha considerato uno dei cento film italiani da salvare. Meritava di più.

Un giorno su 365 (o 366), per ricordare immani tragedie. E a che scopo? Per sgravare la coscienza di avere taciuto, per anni, i crimini titini, a solo fine politico e per la ragion di stato? Per non aver operato al pari dei “Giusti tra le Nazioni”?

S’intenda, onorare i defunti è sempre cosa buona e giusta in quanto è misura della nostra ricchezza d’animo, ma se “A egregie cose il forte animo accendono/l’urne de’ morti…”, ciò non deve assumere forme di vuota retorica in uno con l’ abusata dialettica, tanto per fare e togliersi il pensiero, no. Il gesto ha un valore se sottende una prospettiva, contiene un messaggio, rilancia un progetto di sereno rispetto delle trascorse diversità. Solo così, ha un senso che sui sacelli che racchiudono i sonni eterni, sui luoghi dolenti degli eventi, s’inchinino i labari di una storia correttamente riscritta, a che i giorni della memoria rechino il senso della riappacificazione nazionale.

Photo by Mika 

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Direttrice: Stefania Piazzo
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