di Roberto Gremmo – Nel 1849 il generale italianissimo La Marmora cannoneggiava Genova ribelle Genova “la Superba”, fiera del suo passato, fu vittima dell’avventurismo “patriottico” e del terrorismo di Stato. Quando la restaurazione post-napoleonica permise ai Savoia di annettere al Regno Sardo anche la Liguria, a differenza di quanto accadeva negli altri dominii di Terraferma, si dovette consentire la creazione nei vari distretti di organi consiliari di rappresentanza che avevano l’ultima decisiva parola sull’imposizione delle tasse ed a Genova vennero riconosciuti ampi privilegi municipali.
Come sottolinea Maria Rosa Di Simone nel suo prezioso studio su “Istituzioni e finti normative dall’antico regime all’Unita’”, questa larga autonomia venne garantita “sia per ottemperare alle conduzioni imposte dal congresso di Vienna per l’annessione, sua per contenere il malcontento dei nuovi sudditi tradizionalmente avversi ai piemontesi”.
Se il profondo sentimento dei genovesi era dunque avverso ad una subalterna passività al governo di Torino, non v’è da stupirsi se alla prima occasione l’avversione agli ordini che essi emanava trovo’ subito terreno fertile a Genova. E infatti il “momento buono” si presentava dopo la sconfitta dell’Esercito Sardo nel 1849, quando alla testa della “Guardia nazionale” genovese veniva incautamente messo il chierese Giuseppe Avezzana, dal passato turbolento e tumultuoso.
Ufficiale dell’Esercito Sardo, s’era compromesso col tentativo golpista del 1821, condannato a morte in contumacia, era stato costretto a fuggire prima in Spagna e poi in Messico dove s’era fatto notare come capintesta di numerosi, velleitari, spericolati e destinati inesorabilmente al fallimento tentativi di avventure militari. Era subito tornato in Italia dopo l’armistizio di Salasco, iniziando a pescare nel torbido, spingendo gli ingenui patrioti genovesi a proclamarlo il 2 aprile a capo di un effimero “Governo Provvisorio della Liguria” con Costantino Rea e David Morchio, contrapponendosi al legittimo governo del Re.
Come chiarisce la “Relazione sugli ultimi fatti di Genova” della tipografia Arnaldi, il focoso Avezzana raccoglieva i frutti dei lunghi “maneggi di una fazione sedicente repubblicana, ambulante per l’Italia” e soprattutto facendo circolare per la città l’infondata diceria che Carlo Alberto avesse accettato di consegnare agli austriaci i forti che cingono la città ligure.
Mentre l’imbelle comandante del presidio generale De Asarta abbandonava vergognosamente e vigliaccamente la città, da Torino partiva una “spedizione punitiva” agli ordini del fanatico sabaudista generale La Marmora che, con mezzi sbrigativi e spregevoli, costringeva il sindaco Antonio Profumo a trattare la capitolazione con la mediazione del commodoro inglese lord Hardwich. T
utte le cronache dell’epoca concordano nel considerare “una pagina infame” la violenta repressione ordinata da La Marmora contro Genova, cannoneggiando soprattutto il quartiere du Portoria, “e mentre una sola bomba non cadde sovra i signorili palati, le povere case ed i tuguri de’ popolani ebbero forate le mura da que’ micidiali tormenti”.
Il crimine più orrendo fu colpire con sedici bombe l’ospedale di Pammatone, uccidendo e ferendo decine di poveri malati, costretti nei letti. Come documenta l’obiettiva relazione della commissione d’inchiesta capeggiata da Emanuele Agenore, i bersaglieri di La Marmora si macchiarono dei peggiori crimini, che Genova non ha mai perdonato. L’11 aprile i bersaglieri si abbandonarono ai peggiori eccessi nei quartieri popolari di San Teodoro e San Benigno, saccheggiando le case al grido “Denari o la vita”, uccidendo senza motivo diverse persone, minacciando anche i conventi e depredando persino gli arredi sacri del santuario di Nostra Signora di Belvedere.
Addirittura “fu sparato contro un contadino e fu mortalmente ferito perché oso’ raccomandarsi non rovinassero la poca verdura che non potevano consumare” e contro un povero ragazzo che assisteva da una finestra ai loro eccessi. Persino una bambina di due anni che piangeva e gridava al collo della madre fu strappata dalle braccia della donna è gettata a terra senza pietà. Si scrisse che “nel palazzo del Principe Doria si fecero ingollare ad alcune gallette inzuppate di sangue”.
Una cronaca della violenza militarista, pubblicata nel 1851 dall’editore Claudio Perrin, ricordava però che accanto alle pesanti responsabilità dirette del feroce generale biellese non andavano dimenticate quelle dei maneggioni cittadini e che “le loro arti subdole, i loro inganni, non il valor piemontese, spianarono al Lamarmora l’ingresso in città”.
Poi, mentre veniva proclamato lo stato d’assedio, c’era chi riusciva a farla franca ed era proprio Avezzana. Benché il 24 luglio il Magistrato d’Appello lo avesse condannato per la rivolta con altri dieci coimputati, grazie alle occulte ed efficaci complicità massoniche, riusciva a fuggire da Genova martoriata, raggiungendo Roma dove s’era insediata un’effimera “Repubblica” capeggiata da Mazzini e malamente difesa da Garibaldi.
Successivamente, l’avventuriero di Chieri tornava in America, rimpatriava in tempo per unirsi ai Mille nell’aggressione al Regno delle Due Sicilie per poi finire i suoi giorni come deputato del Parlamenti italiano, eletto prima a Napoli e poi ad Isernia. Il suo fanatismo nazionalista trovava ancora modi d’emergere nel 1877 quando, ormai anziano, Avezzana diventava primo presidente della “Associazione Pro Italia Irredenta” che, apripista del peggior militarismo guerrafondaio, auspicava l’unione al Regno d’Italia del Tirolo di lingua italiana e del fiorente porto dell’Impero Trieste. Mentre Genova martire e dolorante, piangeva ancora i suoi morti e contava i danni. Maledendo i Savoia?