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Garibaldi e i predatori del Regno del Sud

di Roberto Gremmo – I contadini di Bronte credevano ingenuamente che Garibaldi potesse liberarli da antiche servitù ma non sapevano che le terre che avevano occupato erano degli inglesi, perciò il Generale sollecitato dall’‘italianissimo’ siciliano Crispi mandò a Bronte il più feroce e spietato dei suoi luogotenenti, il ligure Nino Bixio famoso a Genova per fallire diverse volte come armatore che il 10 agosto 1860 nella piazzetta del convento di San Vito fece una strage dei presunti capi della protesta, senza nemmeno prendersi la briga d’un processo per stabilire se fossero davvero responsabili della rivolta.

Lo storico ‘ufficiale’ Lucio Ceva ha onestamente ammesso che la feroce repressione fu diretta conseguenza della “consapevolezza che l’aiuto britannico sarebbe mancato se Garibaldi, come si espresse un suo ammiratore inglese, non avesse provveduto “a togliere di mezzo quel po’ di comunismo che aveva alzato la testa a Bronte”.

Ma l’ombra d’un concreto contributo britannico s’intravede anche dietro la corruzione che permise ai ‘garibaldesi’ di neutralizzare a suon di tangenti l’opposizione di molti notabili o militari duo-siciliani, comprati a suon di milioni.

L’ingente somma di tre milioni di franchi francesi i piastre d’oro turche, pari a diversi milioni di dollari del giorno d’oggi, finirono nelle casse della spedizione al Sud durante la sosta a Talamone e questo contributo che doveva servire ad oliare le ruote del tradimento erano di provenienza britannica e come doveva sostenere uno studioso non sospetto di ‘revisionismo’ come Giulio di Vita in un convegno sulla “Liberazione dell’Italia nell’opera della Massoneria” affermava con sicurezza che la sponsorizzazione occulta dell’invasione del Sud era funzionale al progetto britannico di “colpire il Papato nel suo centro temporale, cioè l’Italia, agevolando la formazione di uno Stato laico; come secondo scopo creare un nuovo Stato unitario dalle Alpi alla Sicilia, avente la funzione di costituire una forte opposizione naturale alla Francia, favorendo così i piani imperiali britannici di dominare sull’Africa e sul Medio Oriente e controllare la via delle Indie”.

E quell’oro aprì facilmente la strada a Garibaldi ed alle sue schiere, finendo nelle tasche, fra l’altro, di Ferbinando Lanza, successore dell’altrettanto inetto Paolo Ruffo di Castelcicala nella “Real Luogotenenza” di Palermo.

Nell’autodifesa storica di Giacinto De’ Sivo “I Napoletani al cospetto delle Nazioni civili” si rivela che poche settimane prima della spedizione ‘garibaldinesca’ fu proprio per raccomandazione di Lanza che un personaggio ambiguo ed intrigante, un certo Bozza ‘cittadino lombardo’, divenne direttore dei Telegrafi della Sicilia dove però, da abile agente sabaudista in missione, modificava o nascondeva il testo dei messaggi e falsificava gli ordini che giungevano da Napoli.

Il tristemente noto generale borbonico Francesco Landi a Calatafimi dirigeva le truppe in carrozza e lontano dalla battaglia, perdendola per aver lasciati inattivi almeno 1600 soldati ma come sostiene Luciano Salera nel prezioso saggio “Garibaldi, Fauché e i Predatori del Sud” il suo assurdo atteggiamento si spiega soltanto “dando credito alla versione del suo tradimento ricompensato con una “fede di credito” di 14 mila ducati presso il Banco di Napoli, rivelatasi falsa all’atto della presentazione per l’incasso”.

Un caso eclatante di voltagabbana fu quello del comandante della corvetta a ruote borbonica “Veloce”, il napoletano Amilcare Anguissola passato in quattro e quattr’otto dalla parte dei ‘Garibaldineschi’ appena visto in lontananza appressarsi il “Piemonte” ed il “Lombardo” e che alla battaglia di Milazzo fece sparare i cannoni della sua nave dopo averle mutato il ome un “Tukoty” contro le truppe regolari duesiciliane del colonnello Beneventano del Bosco contribuendo in modo determinante alla vittoria dei ‘Mille’. Venne subito premiato dall’Italia unita con l’elezione farsa a deputato dal 1861 al 1876.

Ma non furono solo le ‘mazzette’ a far cambiare campo agli infidi ufficiali duo-siciliani perché, come onestamente ricorda lo storico Lucio Ceva una gran massa di loro trovò subito onorevole ricollocazione nei quadri del nuovo esercito italiano. Il fenomeno fu ancor più vasto nella Marina dove elementi della flotta passarono dalla parte di Garibaldi, ottenendo subito “miracolose promozioni” di grado, mettendosi in virtù del regio decreto varato in tutta fretta il 17 novembre 1860 alla pari con quelli della Marina Sarda.

L’avvocato don Liborio Romano, era stato uno dei più stretti collaboratori e ‘fidati’ ministro di Francesco II ma con la velocità di un fulmine si trasformò nell’uomo che nominato dall’‘Eroe dei Due Mondi’ primo ministro italianissimo garantì l’ordine pubbblico all’ingresso di Garibaldi a Napoli e gestì il truffaldino ‘plebiscito’ italianista sempre restando un alto grado della Massoneria e come tale ricordato nel 1867 dal bollettino del “Grande Oriente d’Italia”.

Nell’ex capitale del Sud poteva fare il bello ed il cattivo tempo perché, come sottolineava Salera, comandava ai gendarmi ma al contempo capeggiava occultamente la peggior delinquenza ed ebbe “il privilegio di aprire le porte della politica alla malavita e di introdurre la “camorra” nelle cosidette “stanze dei bottoni” a contatto con “quelli che contano”, acquisendo il poco invidiabile primato di esser stato ideatore ed iniziatore di quel processo che vede la perversa comunione tra politica e criminalità, tra potere e malaffare”.

Ma, come un abile burattinaio, dietro le quinte gli uomini più determinati e spericolati del Risorgimento, Garibaldi per primo, agiva Vittorio Emanuele ed egli stesso lo ammetteva in una lettera riservatissima scritta (in francese) al suo ambasciatore Costantino Nigra vantandosi che “il partito d’azione, come voi lo sapete bene, fu sempre diretto da Cavour e da me, e voi sapete bene in quale maniera ce ne siamo serviti”.

In una dotta relazione con tutti i crismi dell’ufficialità tenuta nel 1980 al Congresso di storia del Risorgimento italiani, lo storico Lucio Ceva ha con tutta onestà ammesso che all’arrivo di Garibaldi “[l]’appoggio degli strati popolari era stato limitato ed occasionale in Sicilia ed era mancato del tutto nel Nepoletano. L’esercito garibaldino si era ingrossato con i rinforzi giunti dal settentrione e con elementi della borghesia agraria del Sud”, quella, aggiungiamo noi, che controllava mafia e camorra.

La conquista italiana delle Due Sicilie nel 1860 fu una vera e propria guerra di aggressione: se l’avventura dei “Mille” e di Garibaldi conservò a lungo un alone di nobiltà e di avventura, la spedizione militare dell’esercito Sardo al Sud fu una vera e propria invasione di territori.

La realtà del ‘gattopardismo’ dei ceti egemonici fu l’elemento che diede, ben più dei fatti militari, il successo allo ‘straniero’ invasore, venuto dal Nord. E’ quanto sostiene Augusto Torre nel documentatissimo saggio sulle “Condizioni delle province napoletane nel 1860” edito a Faenza nel 1962:

“La dinastia borbonica era abbandonata da tutti: dalla borghesia conservatrice, che non vedeva più in essa una protezione efficace ai suoi interessi e privilegi, e non disdegnava passare sotto un altro Sovrano più stimato ed energico; dalla borghesia liberale che guardava con ammirazione al prestigio, all’ordine, alla regolarità amministrativa del Piemonte, che per di più ormai rappresentava l’idea dell’Unità d’Italia; dalla plebe napoletana che non aveva più stima e rispetto, e sperava in maggiori favori dai nuovi reggitori; dalla plebe delle campagne che si attendeva la liberazione dai pesi coi quali li opprimevano i proprietari”.

La sconfitta dei Borboni era quindi scontata, ben al di là delle battaglie militari perdute.

Molto meno scontato l’insuccesso dei moti popolari di rivolta (il ‘brigantaggio’) che per oltre un decennio tenne in sospeso l’effettiva conquista del potere al Sud da parte della dinastia dei Savoia.

In rivolte in cui il lealismo borbonico si intrecciava con la criminalità organizzata e quest’ultima si ‘nobilitava’ assumendo un carattere ‘politico’, la lotta contro gli ‘invasori’ ebbe un’ampiezza impressionante.

Nel 1863, quando venne varata la famosa “legge Pica” contro il brigantaggio le truppe italiane stanziate nel Sud contro i ribelli erano più di 250.000.

Carlo Scarfoglio nel suo studio pubblicato a Firenze da Parenti nel 1953 sul “Mezzogiorno e l’unità d’Italia” insiste sul carattere classista di questa operazione di contro-guerriglia italiana:

“E che la Guerra del Brigantaggio non sia stata voluta tanto dal Governo piemontese, quanto dalle classi abbienti meridionali, che reclamavano dal nuovo regime il prezzo per il quale gli avevano ceduto il Mezzogiorno, la soppressione della rivolta agraria, è… indubbio.

Basta leggere negli scrittori liberali attorno al ’70 la rivendicazione della parte presa dalle Guardie Nazionali e anche dai proprietari alla repressione della rivolta agraria, battezzata brigantaggio, per comprendere quello che in realtà avveniva; cioè che i giovani abbienti, i figli dei “galantuomini”, diventati Guardie Nazionali, sparavano sui contadini assieme alle truppe piemontesi… Basta il fatto che la Guerra del Brigantaggio durò cinque anni e richiese l’impegno di due divisioni terziarie, per dimostrare che non si trattava di fenomeni di brigantaggio e di sanfedismo collaterale al brigantaggio, ma di una vera rivolta agraria, disorganica, come tutte le rivolte agrarie, ma di vasta portata, alla quale si aggiungeva la smobilitazione forzata dell’esercito borbonico, e l’influenza di due sentimenti: l’uno, la sorpresa e la delusione causata dalla scomparizione della camicia rossa e dall’apparizione al suo posto dell’uniforme piemontese, l’altro, il senso che i borghesi avevano fatto la loro Rivoluzione, ma il popolo era stato frustrato della sua”.

Del resto, anche i famosi “plebisciti” che pure diedero ufficialmente un sostegno ‘popolare’ al nuovo Regno italiano non mancarono di presentare vistose crepe.

Il giornale cattolico torinese “L’Armonia” diede un quadro sconfortante del periodo dei “Si e No di Napoli” in un articolo pubblicato nel primo anniversario dello ‘storico’ evento:

“Verso la Salute, in quella contrada i No la vincevano sopra i Si, ossia non vi erano che No. Nel vico Carminello, la polizia dopo aver strappato un No dalla porta di una fruttivendola, voleva sostituirvi un Si, quella povera donna finchè toglievano il No taceva, ma quando si accorse della sostituzione, incominciò a gridare a tutta gola che non voleva il Si. Difilava un battaglione di guardia nazionale per Toledo per recarsi alla piazza di San Francesco da Paola, quando una pioggia di No cadde sulle guerriere teste”.

Un testimone assolutamente al di sopra di ogni sospetto, come Cesare Cantù a proposito delle votazioni del 20 ottobre 1860 riferì d’aver assistito a Napoli a fatti sconcertanti:

“Qui il plebiscito giungea fino al ridicolo, poichè oltre a chiamare tutti a votare sopra un soggetto dove la più parte erano incompetenti, senza tampoco accertare l’identità delle persone e fin votando i soldati, si deponevano in urne distinte i “sì” e i “no”, lo che rendeva manifesto il voto; e fischi e colpi e coltellate a chi lo desse contrario.

Un villano gridò: Viva Francesco II ! e fu ucciso all’istante”.

Fu una vera truffa.

E non a caso accese ancor più le polveri della rivolta.

Si è molto insistito sulla presenza di banditi veri e proprii alla testa delle bande ribelli. Poi si è anche messo in rilievo l’importanza dell’appoggio e del coinvolgimento popolare al moto del ‘brigantaggio’. Poco s’è indagato sul ruolo dei militari regolari dell’ex-esercito delle Due Sicilie in quella pluriennale ‘guerriglia’ antipopolare.

A questo proposito, un’episodio sicuramente significativo fu quello verificatosi all’interno della grande rivolta contadina sviluppatasi in Irpinia già nel 1860 : furono oltre duecento soldati borbonici datisi alla macchia a guidare una numerosa schiera di contadini armati ad assalire le truppe d’occupazione a Castagneto e Torricella Sicura.

L’emblema dei rivoltosi era una bandiera ROSSA.

Episodi simili furono numerosissimi.

Ad aggravare le cose, aprendo un solco che finì per diventare incolmabile fra nuovo regime e contadini del Sud, vennero le decisioni assunte dal Governo a proposito sia della leva che del destino dei soldati dell’esercito meridionale sconfitto.

Un canto delle raccoglitrici d’olive di Buccheri, nel Siracusano, molto noto all’epoca, mostrava chiaramente quanto fosse ampia e robusta la rabbia nei confronti della circoscrizione obbligatoria imposta dai Savoia:

“Quantu petri cci vuonu a-ffari m ponti/ quantu peni si pati ppi n’amanti./ Vittoriu Manueli cchi-ccosi facistu / ccu n’amanti c’avì mi la luvastu, / vi lu purtastu ddabbana Turinu, / Vittoriu Manueli lu sazzinu”.

( Quante pietre ci vogliono a fare un ponte, / quante pene si patiscono per un amante. / Vittorio Emanuele cosa avete fatto/ un amante che avevo me l’avete tolto, / ve lo siete portato oltre Torino, / Vittorio Emanuele l’assassino”).

Un adagio popolare siciliano affermava perentoriamente che era “meglio essere porci che soldati”.

Foto Museo Marinaro Camogli

Roberto Gremmo

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