Dal Meridionalismo del PCI al disastro dello Stato

10 Giugno 2020
Lettura 3 min

di Sergio Bianchini – Basta leggere il libro di Luigi Longo “I due centri dirigenti del PCI nella Resistenza” per cogliere l’enorme distacco tra i comunisti del nord e quelli meridionali che fin dal 1943 si manifestò col dispiegarsi della lotta contro il fascismo morente e nella prospettiva della ricostruzione.

Luigi Longo assieme a Secchia guidava il PCI dell’Alta Italia durante la resistenza. Il libro fu scritto nel 1977 nel pieno dello scontro tra i fautori del compromesso storico e contrari, tra cui Longo da poco dimessosi per ragioni di salute dalla carica di segretario del partito.

Era succeduto a Togliatti dopo la morte improvvisa di questo nel ‘64 ed era rimasto in carica, pur tra crescenti difficoltà, fino al ‘72 quando dimessosi fu sostituito da Berlinguer. Per certi versi una figura di transizione che mi ricorda papa Benedetto XVI.

Nel 1968 l’antagonismo proletario del nord su cui si basava ancora la struttura politica e sindacale del PCI settentrionale ebbe un sussulto dopo anni di languore. Le lotte studentesche soprattutto a Milano e Torino sembrarono dare sostegno ad una ripresa del discorso proletario radicale. Sembrarono, perché ormai il primato filosofico e politico nello stesso PCI era ormai nelle mani dei “democratici”, sostenitori della democrazia senza più il fatale aggettivo di “popolare”.

La strategia della democrazia popolare, cioè diversa da quella borghese dei paesi occidentali, non aveva prodotto risultati ed anzi la crisi dell’URSS e l’invasione della Cecoslovacchhia del ’68 avevano ormai totalmente demolito il prestigio del comunismo alla russa che era stato fortissimo nell’immediato dopoguerra.

Lo stesso Longo aveva dovuto manifestare a malincuore come segretario del PCI il “grave dissenso” rispetto all’invasione della Cecoslovacchia attuata dalla patria socialista e dai partiti fratelli dell’est. E così il compromesso storico con la Dc secondo le linee parallele di Aldo Moro avanzava.

Forse il contributo della grande industria all’isolamento dell’antagonismo proletario del nord avvenne proprio con il contratti del ’69 quando il sindacato fu accettato ufficialmente nelle aziende che assunsero in proprio la riscossione ed il versamento delle quote sindacali e permisero la costituzione delle commissioni di fabbrica e del ruolo privilegiato per i delegati e rappresentanti sindacali.

Apparentemente fu una vittoria dell’operaismo che anche nei due movimenti studenteschi prevalenti di Milano (Movimento Studentesco di Festa del Perdono e Avanguardia Operaia) trovò forti sostenitori. Ma il destino dell’antagonismo proletario era segnato. Ritagli anche importanti del PCI, del sindacato, dell’ANPI si schierarono fortemente contro il compromesso storico ed alcuni finirono per sostenere il terrorismo. Basti ricordare Feltrinelli, Lazagna.

Pur minoritario a sinistra l’alone di contrarietà per il compromesso era molto forte. Anche il MS milanese con Salvatore Toscano alla guida guida e ammiratore dell’anziano Alberganti era apertamente ostile con forti venature di disprezzo nei confronti di quella politica e di Aldo Moro che ne era il principale alfiere.

Nel frattempo l’ala ormai vincente nel PCI degli Amendoliani e dei Napolitano si schierò apertamente per la linea meridionalista. Il problema centrale del paese sivenne non più il potere capitalistico nelle aziende del nord ma la questione meridionale soprattutto dopo i moti fascisti di Reggio Calabria.

Anche il sindacato PCI cioè la CGIL cominciò ad investire massicciamente nell’ingresso dentro il pubblico impiego e nelle regioni del sud dove era stata sempre assente.

Grazie ad una indubbia capacità organizzativa maturata nella lotta sindacale al nord, il sindacato CGIL divenne in pochi anni il più grande sindacato italiano e costruì la base sociale nazionale con cui il PCI divenne di fatto il naturale successore della DC morente.

Dietro questa profonda metamorfosi della vita politica nazionale c’è stata a mio parere l’azione potentissima ed abilissima della chiesa cattolica che ha sostenuto il progressivo utilizzo delle istituzioni statali al fine di accrescere enormemente le risorse destinate al sud ed allo sbocco lavorativo per la disoccupazione meridionale.

Basta pensare alle pensioni baby introdotte nel ’73 dal governo del democristiano Rumor, ma anche alle infinite misure per il riconoscimento ai fini pensionistici di innumerevoli attività agricole ecc.

Di fatto tutto ha contribuito per 20-30 anni a costruire lo stato assistenziale e la cultura assitenzialista assolutamente dominante nella quale è confluito il solidarismo cattolico e quello tradizionale socialista e comunista.

Ma la completa vittoria di questa cultura e dei suoi risvolti politici ed economici ha portato alla situazione attuale che Luca Ricolfi descrive benissimo nel suo recente libro ”La società signorile di massa” in cui spiega in modo semplice e inoppugnabile come gli italiani, appoggiandosi al crescente debito pubblico, siano un popolo di finti poveri, specialista nel vittimismo e nella falsa coscienza di sè. Abituati a difendere i propri “diritti negati” ma incapaci di vedere che vivono al di sopra delle proprie possibilità reali.

Secondo Ricolfi questa falsa coscienza e la conseguente paralisi di un autentico spirito creativo e di governo finiranno per portarci davvero nella situazione in cui falsamente per decenni ci ha collocato il piagnisteo rituale e l’elargizione di ricchezza inesistente .

Forse questa profezia adesso è più vicina. Vediamo.

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Direttrice: Stefania Piazzo
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