Da settembre meno classi pollaio? Dividiamole in due e torniamo al maestro unico

11 Aprile 2020
Lettura 3 min

di Laura Aresi – E’ abbastanza chiaro, visti gli ultimi decreti firmati da Mattarella – che in quanto a riforme scolastiche ne sa più di qualcosa, essendo la mente della legge datata 5 giugno 1990, quella dell’introduzione dei moduli alla primaria per intenderci – che il Governo vuole puntare sulla didattica a distanza non solo per il presente dell’emergenza in atto, ma soprattutto per il futuro.


Un futuro del resto particolarmente fumoso, tanto quanto il passato. Sì, perché se anche non fosse stato prevedibile (coniughiamo comunque sempre sulla categoria dell’ipotesi) tutto questo ambaradan, c’è da riflettere – e parecchio – sull’improvvisazione sulla quale l’Italia intera a livello di metodologie di insegnamento telematico si è trovata suo malgrado sintonizzata, benché le tempistiche dello scatto di partenza abbiano rivelato, se ce ne fosse stato ancora bisogno, un colossale dissidio intestino nel meccanismo globale.


Ora, se non è il caso di mettersi a girare il coltello nella piaga su quali lande abbiano recepito per prime il messaggio – ovviamente le prime ad essere blindate, marchiate e vilipese da tutti, nessuno escluso, ossia quelle padane – e quali per ultime, è necessario però riflettere su un paio di argomenti.

Prima di tutto, cosa significa esattamente che dovremo abituarci alla didattica a distanza? Di per sé non è una prospettiva del tutto malvagia: pensiamo ai numerosi casi di scuola in ospedale partiti già una ventina d’anni or sono, allo scoccare della modalità virtuale di relazione, e proviamo a pensare quanti e quali benefici abbiano portato a tanti dei nostri ragazzi costretti per malattia a non poter seguire le lezioni in aula con i compagni: da allora si fanno regolarmente anche esami di stato con le metodologie a distanza.

L’idea di colmare lacune di presenza fisica con quella virtuale a livello pedagogico non è sbagliata: sono tanti gli e-campus ormai, le università italiane si sono bene o male tutte adattate più o meno egregiamente in emergenza all’e-learning; e del resto la stessa iconica senatrice Segre ci aveva recentemente introdotti all’argomento delle videoconferenze se non dei video confezionati a reti unificate, a scuola come in consiglio comunale passando per ricorrenze varie. Quindi, nihil novi e tutto già santificato.


Il problema rimane solamente quello – solamente si fa per dire – di approntare un piano di didattica telematica che sia non solamente sostitutivo, qualora non fosse possibile l’approccio reale fra studenti e discenti, delle metodologie d’insegnamento tradizionali, ma anche e soprattutto originale nelle potenzialità comunicative e pedadogiche: ossia non scimmiottesco di situazioni improponibili nel virtuale ma proprio
n u o v o , e meditato e calcolato fino all’ultima goccia di sudore – per citare il premier in una delle sue memorabili lezioni di vita agli italiani.

E per fare questo, ovviamente, occorrerebbe metter sotto l’intera fanteria del corpo docente italico per tutta la prossima estate al fine di cavarne una preparazione omogenea da predisporsi all’atto della ripresa agli esordi di settembre, come paventato nelle ultime mezze dichiarazioni della Sibilla che siede al ministero.

E visto che i vaticini che si rincorrono a mezzo stampa e a mezzo di decreti sono sempre passibili di qualche esegesi mediatica dell’ultim’ora, più o meno accreditata dai like, proviamoci anche noi a far girare una modesta proposta nel calderone: ma se anziché terrorizzare l’etere con funesti presagi del semel mensile in classe (da intendersi totalmente alla latina: un giorno unico ammassati in flotta, poveri studenti ed insegnanti, come le navi ferme al porto in quarantena) e il resto sepolti vivi fino a novembre e forse chissà quando a seguire le lezioni da casa (e chi li tiene questi figli, e chi li segue, poi, non si è ancora ben capito), se – dicevamo – si evitassero le cosiddette classi pollaio foriere di contagi (tutto poi da dimostrare, una volta finita l’emergenza epidemica) ampliando gli spazi a disposizione e conseguentemente… rimodulando il battaglione di insegnanti?


Certo, un’utopia sfornare per il primo di settembre (ma poi perché, se fino al ‘76 si entrava in classe esattamente un mese dopo ed è sempre andata bene così!) una doppia quantità di milizia docente e soprattutto da dover remunerare il 27 di ogni santo mese. Certo, certo: intanto, almeno per le elementari, pardon le scuole primarie, sarebbe opportuno non trascurare l’assoluta necessità della presenza fisica e totalizzante del maestro, quel passaggio intermedio fra la libera docenza genitoriale e la guida visceralmente più distaccata dalla secondaria in su.

Quindi, se proprio vogliamo sperimentare una nuova didattica double face, metà virtuale e metà in presenza sul campo, con turni a rotazione, facciamolo con i ragazzi già loro malgrado allenati alle scissioni emotive, mentre per quanto riguarda i fanciulli tentiamo almeno una volta di recuperare la lezione pedagogica globale degli umanisti: caro Mattarella, ammetta che quella di trent’anni fa è stata una rivoluzione per favorire gli insegnanti, non i bambini, e quindi varrebbe forse la pena – in emergenza – di tornare al famigerato maestro unico, che magari ci aiuta pure a non doverne assumerne troppi di nuovi: si smembrino in due le classi e contestualmente – proprio per fare un’opera rivoluzionaria e meritoria nel profondo – si diano fondi ai comuni italiani per recuperare alla velocità della luce strutture scolastiche già esistenti e chiuse come fossero fondi per un terremoto (ma spesi bene però), e si riparta a ottobre con serenità e con spazi adeguati nonché memori di storia educativa: historia magistra, verrebbe proprio da chiosare.

Photo by Ivan Aleksic

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