Carlo Porta, “maledetti politicanti rompiballe”. E ce l’aveva con quelli lombardi

5 Gennaio 2021
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di GIUSEPPE REGUZZONI – Non ha fatto bene la rilettura risorgimentale e unitaria delle nostre tradizioni letterarie alla conoscenza e alla diffusione di grandissimi autori come Carlo Porta, milanese (di cui oggi ricorre l’anniversario della morte), o Gioacchino Belli, romano. Quasi che, per voler “sciacquare i cenci in Arno”, sul modello di Alessandro Manzoni, bisognasse dimenticare un pezzo della nostra storia culturale che, allora ebbe la stima di grandi intellettuali stranieri come Stendhal, e a tutt’oggi non è affatto una strana anomalia, ma un pezzo vivo della nostra anima.

Figlio della Lombardia asburgica e illuministica, Carlo Porta non era un letterato di mestiere, benché sia stato uomo di studi regolari, sia pure non conclusi, presso le scuole dei religiosi, a Milano e in Brianza. La poesia era per lui, impiegato statale sia sotto i Francesi che sotto gli Austriaci, una passione profonda, ma anche  un modo per rileggere e interpretare il suo tempo.

Proprio perché “pubblico dipendente” il Porta ci tenne sempre a dichiararsi  “apolitico”, anche se le sue satire dimostrano che avesse le sue idee e che non esitasse a dimostrale con battute spesso sferzanti. Diceva la sua, insomma, e non amava che si usasse il suo nome per dei dossier, come si direbbe oggi, che gli venivano attribuiti contro questo o quel potente di turno: «Carlo Porta poetta Ambrosian / no vorend vess creduu per on balloss, / prima perché a sto monde l gh’ha quajcoss, / e poeù perché el gh’ha minga el coo balzan, / el protesta e el declara a tutt Milan / che tucc quij vers che gira e che dà adoss / a re, governa, prende e pess gross / no hin farina fada col so gran».

Tempi duri, quelli, in cui spesso la penna che colpiva, andava a nascondersi dietro il nome altrui. Persino all’interno della proverbialmente efficiente burocrazia asburgica non mancavano i casi di corruzione. La radice del male, come ricorda la tradizione cristiana, è dentro il cuore dell’uomo, non fuori di esso. Le circostanze, però, contano molto, così come conta molto la presenza di un buon governo o la sua totale assenza. Le cose a Milano dovettero peggiorare con l’arrivo dei Francesi, abilissimi nel vendere l’immagine propagandistica della modernizzazione, ma assai sensibili a lasciarsi ungere per meglio far girare certe ruote. Quisquilie, certo, rispetto a quel che ci ha regalato e ci regala lo Stato unitario italiano, ma pur sempre capaci di scandalizzare un animo schietto come quello del Porta che, oltre tutto, la burocrazia milanese la conosceva dal di dentro. Nacque così, proprio nel 1812, un bel sonetto che, a distanza di duecento anni, non ha affatto perso di attualità:

Quand vedessev un publegh funzionari / a scialalla coj fiocch senza vergogna / disii pur che l’è segn ch’oltra al salari / el spend lu del fatt sò quel che besogna. / Quand savessev del franch che all’incontrari / nol gh’ha del sò che i ball che ne bologna, / allora senza nanch vess temerari / disii ch’el gratta, senza avegh la rogna. / Quand intrattant ch’el gratta allegrament / vedessev che i sò cap riden e tasen / disii pur che l’è segn che san nient. /Ma quand poeù ve sentissev quaj ribrezz / perché a dì che san nient l’è on dagh de l’asen / giustemela e disii che fan a mezz.

Traduzione per i non Lombardi: «Quando vedeste un pubblico funzionario scialarla coi fiocchi, senza vergogna, dite pure che è segno che, oltre al salario, spende lui del suo quel che occorre. Quando sapeste di certo che, al contrario, non ha del suo che le balle che ci sbologna, allora, anche senza essere temerari, dite che gratta senza aver la rogna. Quando, intanto che gratta allegramente, vedeste che i suoi capi ridono e tacciono, dite pure che è segno che non sanno niente. Ma quando poi sentiste un po’ di ritegno, perché dire che non sanno niente è un dar loro dell’asino, aggiustiamola, e dite che fanno a mezzo».

La poesia se ne va, ovviamente, con la traduzione e la perdita della musicalità tutta meneghina dei suoi versi, ma il senso rimane e, forse, invoglia riprendere questo pezzo della nostra tradizione culturale. L’anima del popolo esce tutta dai versi del Porta, e ci parla di mali antichi, oggi tragicamente peggiorati con l’innesto del virus romano.

Anche la classe politica lombarda, difatti, non ne esce bene, se si rilegge un testo, forse troppo poco noto, in cui il Poeta meneghino dice la sua sulla Casta di allora e dà voce a tutta la rassegnazione di un popolo abituato a subire: «Marcanagg i politigh secca ball. / Cossa serv tanc descors, tance reson? / Già un bast in fin di facc boeugna portall, / e l’è inutel pensà de fà il patron». Maledetti i politicanti rompiballeA che servono tanti discorsi, tante discussioni? Già un basto alla fine dei fatti bisogna portarlo, ed è inutile pensare di fare il padrone …

Sono versi che possono suonare un po’ qualunquistici, ma che, in tempi di un certo scoramento, la dicono lunga sulla mentalità lombarda, allora come oggi, lucidissima nel cogliere il problema, ma profondamente, troppo, remissiva e poco propensa a ribellarsi e a puntare i piedi per davvero. Anche quando, come oggi, al posto di Vienna e di Parigi, c’è Roma, e del buon governo s’è perso anche il ricordo.

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