Autonomia scolastica e orario ridotto, il gioco dei tre bussolotti

4 Marzo 2022
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di Sergio Bianchini – “Nella scuola secondaria di secondo grado e, più raramente, nella scuola secondaria di primo grado, può essere prevista, in base ai princìpi dell’autonomia scolastica e della flessibilità oraria, una riduzione della durata delle ore di lezione”. Comincia stranamente così un articolo di Orizzontescuola.it del 25 febbraio con un titolo per me molto accattivante. La stranezza all’inizio mi appare incomprensibile, perché la citata autonomia scolastica non faceva e non fa alcuna distinzione tra scuola di base e secondaria superiore.

Il famoso, ma oscurato in mille modi Dpr 275 del 1999 introduceva un concetto dinamizzatore nel curricolo scolastico, dichiarando che solo una parte dello stesso doveva essere uguale per tutte le scuole della nazione. Lasciava alle singole scuole la possibilità di gestire una frazione, definita dal ministero su base annuale. All’inizio la frazione “local” fu stabilita nel 15%. La ministra Moratti la portò poi al 20%. Questa quantità non è più stata modificata e quindi vale ancora oggi. E allora perché compare oggi uno scritto così dettagliato sul tema della riduzione oraria?

A mio parere l’articolo non ha alcuna voglia di espandere l’utilizzo autonomo della frazione del 20% e infatti si dilunga per prima cosa a spiegare un’altra, a mio parere furbesca, modalità di riduzione del curricolo esistente da decenni ed usata ampiamente prima del periodo Moratti-Gelmini.

Quella modalità, ribadisco a mio parere furbesca, compare come prioritaria nell’articolo e viene spiegata così: “Se la riduzione della durata dell’ora di lezione è determinata da motivazioni estranee alla didattica, quindi da cause esterne alla scuola come il pendolarismo degli studenti e la non coincidenza dell’orario delle lezioni con quello dei mezzi di trasporto pubblico utilizzati dagli stessi, non c’è obbligo di recupero da parte dei docenti, così come stabilisce la normativa vigente, articolo 28 comma 8 del Ccnl 2006/2009”.

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Si rilancia quindi un vecchio utilizzo, che era generalizzato prima della riforma Gelmini. Con esso, riducendo di 10 minuti l’ora di lezione per le ragioni esterne citate, si portavano a 30 ore settimanali le 36 vigenti per legge negli istituti tecnici.

Questo utilizzo, che fu di massa, sembra piacere e non suscita, come invece dovrebbe, alcuna vergogna negli ambienti scolastici, ormai spossati dal peso di lezioni sempre più complicate. Come è possibile che un istituto che ha migliaia di alunni riduca l’orario scolastico a tutti perché una minoranza ha difficoltà con i trasporti o viene da località scomode? Sono certo che, se il tempo docenza risparmiato fosse computato e riutilizzato, questa norma non avrebbe alcun seguito.

Finita la prima esposizione si cita nell’articolo una seconda possibilità di riduzione: “Se la riduzione della durata dell’ora di lezione è determinata da motivazioni esclusivamente didattiche, sussiste l’obbligo di recuperare le ore di lezione non svolte sia per i docenti, sia per gli studenti… Quindi il Collegio dei Docenti deve approvare un progetto e nel progetto deve anche indicare le modalità di recupero delle ore di insegnamento sia per gli studenti (che hanno diritto al monte orario annuo di lezione per ciascuna disciplina), sia per i docenti (i quali sono tenuti agli obblighi contrattuali delle 18 ore)”.

L’articolo mette praticamente in guardia i docenti dal pensare a questa via per ridurre l’ormai insopportabile lunghezza dell’orario scolastico giornaliero, che prevede 6 e anche 7 ore consecutive di lezione. E avverte anche i presidi che il tempo docenza risparmiato non può essere usato per sostituzioni o supplenze.

E così tutto il discorso sull’autonomia scolastica che generò il Dpr 275 del ’99 viene ancora una volta riesumato per essere risepolto. Eppure oggi sarebbe proprio necessaria questa autonomia, vista l’enorme differenza di livelli cognitivi e prestazionali presenti in ogni classe. Sarebbe magnifico se ogni scuola potesse ridurre, come stabilito, del 20% le ore di lezione e usare la docenza risparmiata, pari anch’essa al 20% di 18 ore e cioè circa 3 ore e mezza a settimana, per attività mirate di recupero e di orientamento.

La legge originale prevedeva e comunque non negava questa possibilità, ma è stata “sabotata” da una interpretazione che ha preso sempre più piede ed è ribadita arbitrariamente anche nell’articolo. Si sostiene che il tempo docenza risparmiato deve ricadere su tutti gli alunni nella stessa quantità, ed essere anche riferito alla singola materia che ha subìto la riduzione curricolare. Fare questo è praticamente impossibile e inutile, sarebbe solo un aggravio del lavoro senza alcun vantaggio sia per gli insegnanti che per gli alunni.

Dando invece ai docenti l’assoluta libertà di stabilire la ricaduta dell’insegnamento sugli alunni, con strategie mirate e flessibili, i risultati sarebbero notevolissimi. Pensiamo anche solo a un modello tipo dopo-scuola, cioè attività di recupero mirate a quella fascia di alunni con più problemi (circa un quarto del totale) o anche alla gestione temporanea di singoli casi estremamente complicati, o alla gestione per livelli in singole discipline.

Il criterio oggi proclamato della ricaduta uguale su tutti e con identico rimbalzo per disciplina annienta ogni possibile applicazione ed è il motivo vero per cui questa grande possibilità non viene utilizzata. Invece con la libertà di ricaduta ogni scuola potrebbe fare scelte, esperienze e confrontarsi con le altre scuole sulla base di fatti e risultati concreti. Unico obbligo, una relazione di istituto con una semplice descrizione del progetto attuato e un bilancio annuale chiaro e sincero.

Basterebbe un piccolo incoraggiamento con una chiara definizione da parte del ministero. Possiamo sperare?

Per gentile concessione dell’autore, da www.sussidiario.net

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