20 anni SPECIALE MIGLIO 3 – In uno stato confederato, il popolo fa la differenza. In Italia fa la fame

5 Agosto 2021
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miglio poltrona

di CHIARA BATTISTONI

Quando le certezze vengono meno, quando la paura prevale, quando tutto si paralizza, la risposta più semplice e più frequente è la chiusura in se stessi, il ripiegamento; centralizzare tutto quanto possibile, nell’illusione che un solo centro possa risolvere meglio i problemi di tutti, nella speranza, vana, che omogeneizzare le specificità sia la strada maestra per governare l’ignoto. Ci concentriamo sul tutto per cercare le risposte che non sappiamo trovare. Negli anni Settanta del secolo scorso Karl R. Popper in “Miseria dello storicismo”, parlando dei “meccanici sociali” ai quali è affidato il benessere generale, evidenziava le differenze tra il metodo olistico (o utopistico) e quello “a spizzico” (gradualista).

Mentre quest’ultimo affronta i problemi senza prevenzioni sulla portata delle riforme concentrandosi piuttosto sull’urgenza, “l’olista decide a priori che una ricostruzione completa è possibile è necessaria.” Con l’approccio gradualista un politico può avere o non avere un modello di società a cui tendere, ma ciò non gli impedirà di concentrarsi sui problemi gravi e urgenti; l’approccio olistico punta invece a “riplasmare l’intera società secondo un piano regolatore preciso”. Non basta; osserva Popper: “Il pianificatore olistico dimentica che è facile centralizzare il potere, ma impossibile centralizzare tutte quelle cognizioni che sono distribuite fra molte menti individuali e la cui centralizzazione sarebbe necessaria per esercitare saggiamente il potere centralizzato”.  Cocnlusione: ogni azione orientata alla centralizzazione potrebbe tradursi nel medio – lungo periodo in un danno (non solo economico) ben più grave di quello che si è cercato di risolvere.

Correva invece l’anno 2001 quando il Professor Gianfranco Miglio, in un articolo pubblicato su Ideazione (disponibile su Quaderni Padani Speciale Gianfranco Miglio, n. 37/38 settembre – dicembre 2001), ci ricordava che “ Quello di fissare confini rigidi e immutabili e di farli rispettare con la forza è una vecchia mania della politica dell’età dello stato moderno. Qualcuno pensa ancora che basti un confine per difendere le identità. Economicamente e tecnologicamente i confini già non esistono più: permangono solo come espressione simbolica di un mondo che sta per finire”.

Tanto Popper quanto Miglio traducevano ciò che è noto in ambito scientifico: per innovare, per avere cioè nuove idee in grado di funzionare, produrre risultati e generare cambiamenti, è necessario trovare strade che permettano di valorizzare le specificità, che non inibiscano quel meccanismo di scoperta casuale in grado di orientare o correggere interessi e opportunità in modo del tutto inatteso (conosciuto come serendipità). Non c’è solo la serendipità, però; accanto a essa c’è la capacità dei sistemi (sociali, economici, ecc.) di reperire risorse disponibili e sotto utilizzate per riattivare i processi di sviluppo (i cosiddetti meccanismi exaptivi, di cui scrisse anche il Censis qualche anno fa).

E’ possibile tradurre questi concetti in pratiche amministrative e di governo? Sì e la risposta è il federalismo.

Il federalismo di cui parlava il professor Miglio, il federalismo che diventa risposta gradualista alle esigenze di cambiamento, in cui le tecniche di definizione e soluzione dei problemi sono parte delle tecniche di governo. Salvaguardando le specificità, considerando il cittadino innanzitutto Persona e in quanto tale individuo libero, fa sì che il confronto e la concorrenza portino nuove idee e nuove prassi nella cultura e nella politica di un paese. Il federalismo diventa lo strumento adatto per mettere in concorrenza idee, anche idee politiche, costringendo tra l’altro alla trasparenza, non solo perché avvicinando i centri di potere al territorio il controllo attivo del cittadino è più semplice ma soprattutto perché la circolazione e la condivisione delle informazioni permetteno a tutti i cittadini di disporre delle informazioni necessarie per valorizzare le proprie specificità (individuali e di comunità).

Al centro del federalismo, dunque, c’è il binomio libertà – responsabilità, c’è la possibilità di sentirsi Popolo nel pieno rispetto delle proprie identità. Osservava Gianfranco Miglio che una “popolazione” diventa un “popolo”, perciò anche un aggregato politico, quando a darle unità concorrono “una relativa omogeneità di stirpe e il fatto di risiedere su di un territorio abbastanza uniforme e soprattutto ben delimitato.

La Confederazione Elvetica, da questo punto di vista, è la confortante dimostrazione di quanto il federalismo sia capace di realizzare; l”aggregato politico” evocato da Gianfranco Miglio, il Popolo, in terra elvetica ha fatto la differenza e ha permesso che la molteplicità vivesse e si esprimesse nell’unità, nella considerazione e nel rispetto reciproci, come sancito nel Preambolo della Carta Costituzionale elvetica.

Ci divide un vero abisso: mentre da noi l’unità è soprattutto il prodotto (per molti ancora incompiuto) di una sostanziale omogeneizzazione e progressiva armonizzazione delle prassi e delle genti, tra loro profondamente diverse, in Svizzera l’unità è tuttora il frutto di un atto di volontà che, come tale, “tiene insieme” popoli diversi che scelgono di stare insieme pur rimanendo diversi, così diversi da parlare perfino quattro lingue differenti. E’ il federalismo, che permette alle identità specifiche di manifestarsi e di esprimersi in libertà, che consente ai cittadini di essere prima di tutto individui padroni della propria vita, che permette perfino di discutere dei propri confini interni. E’ l’essenza dell’alleanza confederale, quella che nel Preambolo è destinata a ”consolidare la coesione interna, al fine di rafforzare la libertà e la democrazia, l’indipendenza e la pace, in uno spirito di solidarietà e apertura al mondo (…)”.

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