Non confondiamo il consenso con la democrazia

16 Maggio 2021
Lettura 5 min

di Giovanni Cominelli – All’inizio della pandemia l’Italia fu attraversata da una corrente calda di solidarismo e di speranza. Il vecchio Ernst Bloch si agitò felice nella tomba: tornava il “Principio speranza”. Ma l’autunno/inverno del 2020 e la primavera del 2021 hanno rivelato un’Italia più profonda: quella degli individui e delle corporazioni, quella dei diritti e delle protezioni, quella delle domande di giustizia. Non di giustizia sociale, ma di giustizia… giudiziaria. 
L’adorazione del vitello d’oro della privacy si è diffusa in tutta Europa, Italia compresa.  

Sarebbe bastato, per esempio,  che, passata la prima ondata della primavera/estate 2020, il governo avesse deciso e i cittadini avessero accettato uno stringente tracciamento dei contagiati e il loro conseguente temporaneo isolamento per bloccare la seconda e la terza ondata e perciò per salvare la vita di decine di migliaia di Italiani e favorire la ripresa rapida delle attività commerciali, turistiche e di servizio. La triste fine dell’App Immuni è l’esito malinconico della strenua difesa della privacy e della conseguente libertà di contagiare ciascun altro in nome del proprio spazio personale. Questo fallimento, con perdita di controllo del contagio e il ricorso alla tecnica primitiva e millenaria del confinamento, è la spia di altro. In effetti, il Covid-19 ha rivelato le nervature di una società profondamente cambiata da qualche decennio: una società individualista di massa. 

Si attribuisce, solitamente, al ’68 la rottura della tavola di valori comunitaristici che avevano retto la società del secondo dopoguerra. Valori fondati e alimentati dal solidarismo cattolico, socialista e comunista. Ovviamente esistevano, come in tutte le società, pulsioni private di singoli e corporative di gruppi, ma lo spirito prevalente, ancora fino ai primi anni ‘70, era quello della faticosa costruzione di una Repubblica di cittadini, sulla base dei principi etici della sua Costituzione. 
Colpa del ’68? In Italia si presentò con due facce: quella “americana” del Manifesto di Port Huron e quella del cristiano-marxismo.


Forse pochi, all’epoca, lessero “The Port Huron Statement of the Students for a Democratic Society”, redatto sulle rive del Lago Michigan nel giugno del 1962. In quel testo si tracciava l” ’Agenda for a New Generation”. Muoveva dalla percezione della gioventù universitaria americana che “Men have unrealized potential for self-cultivation, self-direction, self-understanding, and creativity”. Dentro la società del complesso militare-industriale e della “nuova frontiera”, emergeva con forza il Self-… Se nessuno o quasi in Italia lesse quel documento, le sue parole d’ordine arrivarono velocemente sulle ali delle canzoni, dei testi letterari e filosofici, dei beni di consumo, dei comportamenti. Chi non ricorda “sesso, droga e rock ‘nd roll”?  E’ certamente stata l’idea del “potenziale umano irrealizzato”, compresso da antiche strutture ideologiche e istituzionali, che ha mosso le giovani generazioni in Italia e in tutto il mondo avanzato. I cattolici e le sinistre tentarono di fornire uno sbocco comunitario e collettivo a questa energia individuale. I cattolici?  La Fuci, le Acli, Comunione e Liberazione, Cristiani per il Socialismo, l’MPL, la sinistra dc…

Le sinistre? La sinistra storica del PCI e del PSI e le numerose sigle della sinistra “rivoluzionaria”. Guardando quegli anni ormai con il binocolo rovesciato e con il senno di poi, dobbiamo constatare che le culture politiche storiche non sono state in grado di addomesticare la scoperta di massa del Self-qualsiasi cosa. Non sono state capaci di costruire un nuovo alveo culturale e politico-istituzionale, che trasformasse in cittadini della Repubblica le persone che stavano diventando individui e che si andavano sottraendo alla presa di Dio-Famiglia-Patria. La secolarizzazione del cristianesimo e del marxismo ha generato una liberazione ambivalente, che non ha costruito una nuova più matura cittadinanza. E’ nata la società degli individui, mossi dal “principio di illimitatezza”, come sostiene Jean-Claude Michéa, citato da Jacques Julliard sul Foglio. Non la Repubblica di cittadini.

Questa è, dunque, oggi la condizione della grande maggioranza della società italiana, che le ricerche dell’Istituto Cattaneo, dell’Ipsos, del Censis hanno documentato e che ciascuno di noi può rilevare a naso. 
Una società siffatta non reggerà a lungo la guerra degli individui contro ogni altro individuo, anche se condotta non con la clava, ma “per interposti avvocati”, come è stato acutamente osservato. Una Repubblica di unici difficilmente resterà democratico-occidentale. I segni di tale logoramento non sono mancati dagli Usa all’Europa. 

Intanto, questa società ha messo a soqquadro il sistema politico. Che cosa ne è venuto fuori, sul piano della rappresentanza? Una sinistra dei diritti, una destra delle libertà, una destra territoriale-corporativa-sovranista, e, infine, lo straordinario fenomeno del M5S. Straordinario non solo per la quantità del consenso raccolto – il 33% dei voti –  ma, soprattutto, perché vi si sovrappongono completamente la dimensione antropologica e quella della rappresentanza politica: lo specchio è il rispecchiato. Il M5S è l’autotrasparenza assoluta di un pezzo di società italiana. “Uno vale uno” è il Manifesto di un individualismo radicale: pervasività del diritto, la magistratura come potere assoluto sulla vita associata e sulla politica, political correctness, class actions, ricorsi ai Tar… E il sovranismo? E’ una conseguenza di questo individualismo di massa. Non è la nostalgia della liberazione delle nazioni dell’Ottocento né quella della patria totalitaria del ‘900. Salvini non ha nostalgia del fascismo, ma neppure la Meloni. E’ un fenomeno reazionario, semplicemente. Nel senso che si tratta di una reazione autoprotettiva all’individualismo apolide: gli individui si associano alla ricerca della protezione-contro. La sinistra, da parte sua, si è buttata sulla political correctness e sulla crescita tropicale dei diritti. E la destra liberale? Perduto il senso dello Stato del liberalismo classico di Croce e Einaudi, è diventato semplicemente la rivendicazione di un laissez-faire sguaiato. Un liberalismo da commercianti.

Il fatto è che i partiti hanno ridotto la democrazia a ricerca spasmodica e competitiva del consenso, che consiste nell’assecondare  passivamente ogni tendenza spontanea della società civile, ogni spirito animale. Hanno cessato di essere e costruire classe dirigente, che si assume le proprie responsabilità e ha il coraggio di andare controcorrente. L’ossessione del consenso è l’ossessione di vincere, l’ossessione del potere, l’idea esagerata di essere la soluzione dei problemi storici del Paese. Anzi, la salvezza. Non pare che le cose stiano così. La classe dirigente della Costituzione aveva un’idea della democrazia come tavola di valori, come istituzioni, come consenso. A quella di oggi è rimasta solo la gamba del consenso, a tutti i costi. 

Per gentile concessione dell’autore, da santalessandro.org

Giovanni Cominelli

Giovanni Cominelli laureato in filosofia con Enzo Paci. Consigliere comunale a Milano nel 1980 per il Pdup, consigliere regionale dal 1981 al 1990 per il Pci. Dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Cdo dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Collabora a Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative sul Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009)

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