di Giovanni Rinaldi – Si sa, nulla da noi è più definitivo del provvisorio.
Le testimonianze di ciò sono ai bordi dello stretto che divide Messina dal continente. Sono le favelas dello Ionio, tra le navi traghetto e le cime dei Peloritani. Figlie dirette delle baracche che seguirono il terremoto del 1908, costituiscono il canto del cigno di quanti hanno promesso il “risanamento”.
Ne è trascorso del tempo da quando nell’inverno del 1908 la terra tremò radendo al suolo Messina, Reggio Calabria e centri viciniori. Tempo impiegato: poco più di trenta secondi. Vita delle baraccopoli: 112 anni.
Territorio interessato: “riguarda sei zone della città (Annunziata, Giostra-Ritiro-Tremonti, Camaro, Fondo Saccà, Bordonaro-Gazzi-Taormina e Santa Lucia) che si estendono per oltre 230mila metri quadrati, ove sono presenti baracche e casette degradate, molte abusive – che ospitano 6.400 persone – conseguenza della gravissima situazione determinata dal terremoto del 1908 e mai risanata”. Così scrive in una sua relazione il sindaco della città dello stretto Cateno De Luca.
Eppure sul cielo del paesaggio dell’antica Zancle hanno garrito tante bandiere: quella sabauda con l’omonimo scudo nel centro, quella con l’aquila fascista, il tricolore repubblicano e quella con la “Trinacria”, simbolo di un nascente autonomismo e di una sconfitta separatista. Si sono succeduti governi di tutti i colori, Capi di Stato, Primi Ministri, Presidenti Regionali da Giuseppe Alessi a Nello Musumeci, passando attraverso Silvio Milazzo e il “milazzismo” e Salvatore Cuffaro ma quelle casette, difficili anche a gestire in tempo di pandemia a causa della vicinanza l’una all’altra e della promiscuità stanno sempre la. Sul ”Fatto Quotidiano”, nell’edizione del 16 maggio 2020, Manuela Modica riporta le parole di un’abitante del luogo; “Se qualcuno prende il virus è finita per tutti: ha visto come viviamo? Tutti appiccicati”.
L’allerta è della signora Giovanna, che parla mentre indica la fila di baracche subito dopo la sua. Poi punta il dito verso il basso, indica un tombino dal quale scorrono rivoli di fogna, uno in direzione di casa sua: “Non moriremo di coronavirus, forse, ma di puzza di fogna sicuro”.
Sia chiaro, come già accennato le baraccopoli in parola non sono quei sparuti prefabbricati dell’immediato dopo terremoto, ma ne sono la diretta proliferazione. Sono un di più. Mentre la città vedeva la ricostruzione in termini di nuove case e palazzi in muratura, ai margini sopravviveva la baracca, spesso auto costruita, senza permessi, realizzata da ex braccianti e contadini che avevano lasciato i campi per la città e privi di un’abitazione. E così, dal tugurio post terremoto, a quello post bellico, a quello post inurbamento la baracca è finita per divenire un fatto culturale, da lasciare in lascito. “Se muoio la baracca rimane a te”. “Se mi danno la casa popolare la baracca te la lascio”. “Se mi danno la casa popolare la rifiuto (magari devo pagare l’affitto), così mi rimane la baracca gratis”.
Tutto viene da lontano. Era un lunedì quel 28 dicembre 1908, al pari di questo e di tanti altri ultimo mese dell’anno, quando, come da sottotitolo del libro di Giorgio Boatti (Le Scie-Mondadori) La Terra Trema, si scatenarono “i trenta secondi che cambiarono l’Italia, non gli italiani”.
Plinio il Vecchio così descrive un terremoto: “Un rumore terribile, ora simile ad un mormorio, ora a un muggito, ora a un urlo umano oppure al cozzare delle armi…”. Qualcosa di simile, certo udirono i malcapitati di quella fine di dicembre a Messina mentre tutto crollava d’intorno. Erano da poco passate le cinque e alcuni provenienti dal teatro o da feste tra amici avevano appena preso sonno. Fu il fenomeno tellurico di una portata notevole, XI grado della scala Mercalli su XII (quella che misura il grado di devastazione dei terremoti), magnitudo 7,2 di quella Ritcher (misura l’intensità energetica) su un massimo di 13. Per trovare qualcosa di simile e più, per dimensione in Sicilia, occorre risalire al 1693, quando la zona interessata fu la vastissima zona conosciuta a quel tempo come la Val di Noto.
Wikipedia ne descrive la forza; “Terremoto con effetti distruttivi su vasta scala a livello regionale; riscontrati danni o distruzioni nelle province di Siracusa, Catania, Enna, Messina, Caltanissetta, Agrigento e Palermo.
Lo sciame sismico comincia il 9 gennaio e culmina con la scossa di magnitudo Richter 7.7 che interessa l’intera Sicilia, Calabria e isola di Malta. Il maremoto che ne consegue interessa tutta la costa ionica siciliana”.
Dopo la scossa Messina e dintorni al pari della costa calabra, vide le vie di comunicazione completamente interrotte, così il telefono e il telegrafo. Danni riportarono le tubature del gas e si rimase privi dell’illuminazione stradale. Ai danni causati dal movimento del suolo si aggiunsero quasi subito quelli provenienti dal mare a causa di un maremoto. I vecchi pescatori di Giardini Naxos (50 Km da Messina), dimoranti lungo il budello di case poste a ridosso della battigia ionica, ricordavano bene l’acqua ritirarsi lasciando una vasta zona di asciutto per poi riversarsi distruttiva nell’entroterra.
I primi soccorsi li prestarono uomini della Regia Marina cui si aggiunsero unità italiane e straniere proveniente da altri porti siciliani. In particolar modo, negli aiuti si distinsero marinai delle unità dello Zar di tutte le Russie, ne è riconoscimento una lapide e un monumento eretto in città.
E Roma? Mentre le prime frammentarie notizie dell’accaduto apparivano sui primi quotidiani, sul tavolo del Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti si accumulavano alcuni dispacci che interpretò come lamentele della gente meridionale, lamentosa e poco rispettosa della via gerarchica. Per la caduta di qualche comignolo nel sud Italia, tutt’al più rivolgersi al ministero degli interni attraverso le prefetture. Oh basta là, neh.
La prima notizia ufficiale delle vaste dimensioni del disastro pervennero dal comandante della torpediniera Spica. E Roma si mosse, anche perché nel contempo era giunto un telegramma recante la notizia: “Messina distrutta”. Un ambulante l’aveva spedito facendo a piedi i 25 km, quelli che dividono Messina da Scaletta Zanclea ove si trovava un ufficio postale con telegrafo funzionante.
Le vittime superarono quota 90.000.
La ricostruzione prese le mosse da un atto parlamentare del 1909 col quale si stabiliva che la città dovesse rinascere nel medesimo luogo ove era stata distrutta. Nel 1911 fu approvato il nuovo piano urbanistico. Anche Mussolini disse la sua quando il 22 giugno 1923 affacciandosi al balcone della Prefettura affermò: “Messina deve completamente risorgere e tornerà bella, grande e prospera com’era una volta. Non è soltanto un interesse messinese o siciliano; è un interesse di ordine squisitamente nazionale”.
Con lentezza tutta italiana Messina, sopravvivendo a burocrazia e guerre, rinacque, ma accanto a quella bella e ufficiale rimasero le baracche di cui si è detto. Provvisorie per carità! ma nulla è più definitivo del provvisorio. Quasi un ossimoro.
Vedi anche: https://www.mediasetplay.mediaset.it/video/drittoerovescio/nelle-baraccopoli-di-messina_F310146301023C17