L’INTERVISTA – Stefano Zecchi: Crisi? Serve un partito gollista, per il Federalismo in Italia e in Europa

2 Febbraio 2021
Lettura 7 min

di Stefania Piazzo – Mentre la politica si consuma nei corridoi della crisi, c’è sempre un grande assente nelle navette dei progetti che fanno la spola da un partito all’altro, in attesa di una “quadra”. E’ il federalismo, il tema delle autonomie. Questione tutt’altro che teorica, per il professor Stefano Zecchi. Ordinario di Estetica all’Università degli Studi di Milano, scrittore, opinionista, già assessore al Comune di Milano, candidato sindaco a Venezia nella federazione del Partito dei Veneti, in quota Grande Nord, oggi consigliere comunale d’opposizione, Zecchi  spariglia e rilancia uscendo dalle secche del dibattito politico romano.

“Il tema del federalismo è cruciale, non è legato solo alla vita di singoli Comuni per una migliore efficienza amministrativa. Non è un dibattito locale, insomma, ma questo mi pare non sia ben compreso dalla classe politica italiana. La questione va posta sul piano di gestione politica internazionale”.

In che senso, professor Zecchi?

“L’esempio lo abbiamo, evidente, davanti agli occhi. Vediamo cosa è successo negli Usa con Trump. Cos’ha fatto l’ex presidente, di fatto? Ha spezzato il tipo di gestione monocratica dell’apparato, Trump rappresenta un tipo di rottura di questa visione monocratica dell’America.

Quello che era Trump lo sapevano tutti. Però lui è riuscito a evidenziare la crisi del sistema amministrativo di una realtà colossale come gli Stati Uniti. Obiettivo? Ripensare alla funzione di una amministrazione federale che ha la possibilità di ridistribuire le ricchezze, di rivedere le proprie identità”.

In altre parole, ha destabilizzato l’establishment?

“Esatto. Ha interrotto una visione monocratica, ha dato voce all’America che non era rappresentata dal vecchio sistema. D’altra parte l’idea originale dei padri fondatori era quella di creare entità federali, come la Svizzera, rappresentative del popolo”.

Possiamo allora dire che anche l’Europa è monocratica in questo momento?

“Certo, oggi il problema dell’Europa stessa è realizzare il federalismo. Così com’è finisce che governa chi ha più quattrini, chi ha più solidità politica.

Si capisce sottotraccia, in questo periodo, anche la funzione di Matteo Renzi che è molto legato agli Stati Uniti: in lui vedono una persona che può rompere un equilibrio germanocentrico, spostato tutto economicamente sulla Cina”.

E in Italia il dibattito a che punto è?

“Il dibattito sul federalismo deve essere vero, culturalmente radicato. A Venezia col prof. Carlo Lottieri stiamo costruendo un gruppo di lavoro con una prospettiva culturale, per uno statuto autonomo di Venezia. Venezia Capitale d’Europa. E’ un tema che va al di là del tema strettamente specifico amministrativo, non è solo economico: è la riorganizzazione degli Stati. E il riconoscimento delle Capitali naturali dei territori”.

La Costituzione ha lasciato come margine di manovra le Regioni, ma le Regioni hanno fallito. O meglio, la classe politica le ha fatte fallire. Quindi, da dove si deve ripartire?

“E’ così. Puoi avere gli statuti più belli del mondo, ma se non hai le persone capaci di sviluppare quell’azione politico-amministrativa, va tutto in malora. E noi abbiamo una classe politica, oggi lo vediamo, di una modestia sconcertante. Il voto di protesta che ha decretato il successo di alcuni partiti ha portato di fatto al blocco dello sviluppo politico ed economico del paese, con l’alibi della pandemia”.

Che ne pensa del dibattito sulla competenza della politica sollevato dall’epistocrazia? Spazio solo ai competenti, previo esame?

“E’ un’utopia. Certo, è giusto pensare che chi ci governa debba avere le vere competenze. D’altra parte la democrazia ha i suoi limiti proprio in questo, dà il suffragio universale ma al tempo stesso non si preoccupa della cultura di chi vota. E’ una coperta corta. Piuttosto bisognerebbe lavorare alla base come una volta: scuole di partito, riorganizzare la formazione, dal basso, riappropriarsi dell’identità, della storia”.

La sinistra ha le carte in regola per governare, professore?

“Oggi c’è una deregulation totale sul tema del valoriale, della scelta politica. Lo stesso Pd, per risponderle, finisce per essere quel partito di sinistra che ha costruito un vero establishment conservatore. Il Pd viene votato dai grandi industriali, dai magistrati, dai giornalisti che non si sentono solo giornalisti, dai professori universitari…

In generale, non c’è più una visione, c’è un vuoto, non c’è una costruzione ideale di qualcosa. I giovani vengono additati come figure sacre. Il resto va rottamato. Ma qual è il progetto? Un’economia che funzioni meglio? E poi? Forse il punto è che andrebbe premiato il merito. E da dove inizio a premiare il merito? Dalla scuola”.

Il Paese ha perso un’altra volta il treno dell’autonomia? Il referendum è stato solo una mossa elettorale? Ogni tanto riemerge come bandiera quando si va alle urne, altre volte abbiamo sentito dire al leader della Lega “Se mi eleggete faccio l’autonomia in 15 minuti”… e via discorrendo. Insomma, chi governa il territorio non dovrebbe forzare la mano e imporre nel dibattito politico la questione di un paese che ha velocità diverse e ha necessità di risposte diverse, a maggior ragione ora per ripartire?

“Guardi, il referendum è stato un grande successo culturale, le persone a tutti i livelli sociali hanno capito la necessità di conquistare un’autonomia amministrativa ampia e di una capacità quindi della politica di stare attenta alle situazioni di prossimità. Poi l’esito referendario non è stato portato avanti per l’insipienza politica”.

Nonostante il “plebiscito” referendario siamo ancora fermi al via?

“C’è stato nel 2017 un mandato molto preciso da parte della popolazione. Averlo dimenticato è proprio un tradimento della politica. Ma come, fai un referendum che viene stravinto e non dai corso a quello che ti indica la volontà popolare?”.

Non siamo in Svizzera, evidentemente…

“In queste scelte di democrazia diretta, come in Svizzera, dov’è la vera opposizione? Nel popolo. Prenda il governo svizzero: ha sette ministri, quattro della maggioranza e tre dell’opposizione. Ma l’ultima parola spetta al popolo che si esprime attraverso la forma di democrazia diretta che è il referendum. Se non si tiene conto di un referendum in cui la stragrande maggioranza chiede l’autonomia, che amministratore sei? Questo mostra la crisi della politica rispetto a una sensibilità elementare, popolare, che però comprende meglio dei partiti che una amministrazione autonoma, è necessaria per il bene comune. Non occorre avere la laurea per capirlo, qui invece abbiamo politici che vengono fuori dal niente. Non capiscono”.

La questione settentrionale. Ne ha parlato più spesso il centrosinistra, da Gori a Sala. Sono credibili? Dall’altra c’è la svolta di Salvini, che punta sullo Stato nazionale. Tatticamente la Lega ha conquistato consensi, ma la questione del Nord non è più prioritaria. Perché la questione settentrionale non può essere di tutti? Se fossimo in Svizzera, sarebbe questione politica di tutti perché lì maggioranza e opposizione governano insieme per il bene comune. In Italia, invece si è perso il senso del bene comune?

“Qui abbiamo perso non solo il senso del bene comune, ma anche il senso della politica. Credo che il centrosinistra, parlando di questione settentrionale, non sappia in realtà da che parte cominciare. E questo accade perché la sinistra è un partito, come detto, da establishment, è un partito con una visione stalinista del potere, cerca di avere più consenso possibile, prendendo idee un po’ di qua, un po’ di là… Insomma, non sono credibili. A dirla tutta, nel panorama politico italiano chi ha conservato la maggior coerenza è la Meloni. Va diritta per la sua strada, chiede elezioni senza tante storie. In questa situazione ciò che paga è la coerenza in un discorso politicamente semplice. Tutto il resto, dalla questione del Nord al Federalismo, in bocca ai politici sono sole parole. Non è un caso che ci sia disaffezione verso la politica, verso il voto.

Quando in una campagna elettorale senti Pd e 5Stelle che si accaniscono l’uno contro l’altro e poi lo vedi insieme, come si costruisce una credibilità? A maggior ragione quando si parla di una visione del Paese, sulla riforma dello Stato, o davanti ad un referendum del quale non si dà corso.

Se c’è una credibilità politica nazionale, la gente ti segue. Lo vediamo in Gran Bretagna, in Germania. Qui da noi la situazione è direi malinconica”.

E la Lega, professore?

“Salvini è molto attivo, determinato, ma è troppo di pancia, ha una verve emotiva eccessiva. Però ha capito che c’era un vuoto gigantesco, lasciato da Forza Italia e da una visione centrista, dove si inseriscono le partite iva, il ceto medio. La politica è d’altra parte l’occupazione di spazi lasciati vuoti mettendoci delle idee. Lui ha avuto l’idea della difesa dei confini, in particolare. Ha abbandonato l’idea federalista, il tema del Nord. Basta vedere che mascherine indossa per capire che da Bossi a lui c’è un abisso”.

Come ne veniamo fuori dalla crisi della rappresentanza e dal perenne braccio di ferro con l’Europa?

“Oggi sarebbe interessante riproporre un progetto di federalismo nazionale, mi piacerebbe si formasse in Italia un partito gollista in cui l’Europa è un centro propulsore del federalismo dei popoli. E’ un modo per mettere all’angolo questo establishment che è soffocante, di intellettuali radical chic, di quelli che hanno sempre ragione, quelli che cambiano idea ma l’idea è giusta, che ha un effetto deleterio sulla popolazione. Oggi si vede a livello nazionale che accade: sono al governo partiti politici che non sono più rappresentativi della realtà nazionale, hanno il problema di mantenersi lo stipendio, non sono mossi da ideali, non hanno lavoro, quando mai gli capiterà un’altra occasione come questa?”.

Da osservatore ma anche da amico del movimento Grande Nord, che possibilità ha questo seme del federalismo di germogliare di nuovo? Che possibilità ci sono, in nome del federalismo e delle autonomie, di costruire alleanze, per portare a casa dei risultati o, almeno, tenere alta, in attesa di tempi migliori, la bandiera della questione settentrionale in chiave europeista?

“Vanno dette due cose. La prima, è la cultura che costruisce il progetto politico. Solo la cultura genera futuro politico solido. Quindi occorre lavorare sodo in questa direzione (il professor Zecchi è tra i relatori della prima scuola quadri di Grande Nord, che parte il prossimo 7 febbraio, ndr). La seconda: la strategia delle alleanze è sempre il punto di Archimede per sollevare qualsiasi cosa con la tattica legata alla contingenza. E qui ci vuole la mente politica. Proprio perché la situazione odierna è ingessata, legata a opportunismi, in cui tutto e il contrario di tutto va sempre bene. Oggi la politica è nichilista, manca una prospettiva sul futuro, manca un’idea valoriale del progetto. Serve l’intelligenza politica per uscire dalle secche in cui ci hanno cacciato”.

L’ultimo libro del professor Stefano Zecchi

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