di Carlo Andreoli – La Corte costituzionale polacca, accogliendo un ricorso presentato nel 2019 da 119 parlamentari, ha dichiarato incostituzionale l’art.4 della legge del 7 gennaio 1993 nella parte in cui è consentita l’interruzione della gravidanza in caso di elevata probabilità di serio e irreversibile deterioramento del feto o una incurabile malattia pericolosa per la vita. Secondo i giudici, dunque, il c.d. aborto eugenetico sarebbe inconciliabile con l’art.38 della Costituzione del Paese, il quale garantisce la protezione legale della vita a tutti.
Ogni bambino abortito, ogni vita stroncata al suo inizio costituisce un fallimento per la società ed una sconfitta per l’umanità, soprattutto quando la causa è “un difetto di fabbrica”: ecco perché il traguardo tagliato dalla Polonia il 22 ottobre scorso, proprio nel giorno della memoria di san Giovanni Paolo II, figura una vittoria ancora più importante.
Questa pronuncia giudiziaria (rilevante sottolineare che non si tratta di un intervento politico) simboleggia una triplice vincita: salverà moltissime vite, sdogana il concetto di “vita non degna di essere vissuta” e dimostra che lottare per i veri principi non rappresenta mai una inutile battaglia, anche quando sembra persa in partenza.
Significativo è il silenzio e la scarsa (per non dire totale assenza di) visibilità che ha accompagnato questa decisione a livello mediatico, nonostante le assidue manifestazioni e le proteste che sconvolgono la Polonia in questi giorni. Peraltro, l’ivg non è stata vietata in toto (ma solo nella misura in cui questa sia finalizzata a rimuovere la patologia ammazzando il paziente), perciò cosa spinge davvero i cittadini a riempire le strade del Paese sotto il falso reclamo del “diritto ad abortire”?
È evidente che questa vicenda smaschera il reale volto dell’attuale società moderna, corrosa dalla cultura dello scarto, che ha appiattito ed inibito le coscienze dei suoi consociati, educandoli ad essere in balia delle proprie voglie, per soddisfare le quali non ci si domanda più “è giusto?” ma piuttosto “mi è consentito?”