Categorie: Cronaca

Il made in Italy mascherato. Lo sfruttamento è dietro l’angolo di casa nostra

di Luigi Basso -La settimana scorsa la televisione pubblica svizzera ha mandato in onda un lungo e coinvolgente reportage su uno dei marchi più noti del mitico Made in Italy: tra le varie “bellezze” illustrate nel servizio spiccava senz’altro il fatto che il noto marchio non produce nulla di ciò che vende – nonostante la pubblicità faccia mostra di “artigiani” con tanto di grembiule ed accento rigorosamente locale – essendo la fabbricazione della merce affidata ad una filiera di imprese situate in capannoni che si trovano nel cuore della laboriosa pianura padana, capannoni pieni zeppi di operai stranieri, per lo più asiatici, che lavorano per pochi euro all’ora, giorno e notte.
Questo servizio fa da pendant ad una serie di altre inchieste giornalistiche che mostrano sempre più inesorabilmente la traiettoria che sembra aver preso la produzione italiana.


In ampie zone della penisola l’agricoltura si fonda sul caporalato e sullo sfruttamento feroce della manodopera straniera (si vedano, per fare un esempio, i braccianti sikh che nel Lazio vengono dopati con antidolorifici per far loro sopportare i ritmi massacranti della raccolta a mano dei frutti o gli africani che nel profondo sud sono trattati peggio degli animali da soma).


L’industria alimentare italiana è sempre più impostata sulla produzione selvaggia e senza regole, come ha mostrato inequivocabilmente ed oggettivamente l’inchiesta della tv di Stato italiana sulla produzione degli insaccati top della gamma.


Certamente non bisogna assolutamente generalizzare, anzi, paradossalmente si finirebbe così facendo proprio col danneggiare ancora di più i produttori classici.
Tuttavia sarebbe sciocco e miope tacere quella che è la tendenza – la traiettoria, appunto – che sta assumendo una bella fetta del Made in Italy e che rischia – col tempo – di “sputtanare” nel mondo pure l’ultima cosa rimasta all’economia italiana, il nome.


Non si può nascondere il fatto che oggi una buona fetta della produzione italiana sia sempre più fondata: 1) sul lavoro precario e sul costo del lavoro a livelli ormai competitivi con molte parti del Terzo Mondo, 2) su una poderosa immigrazione di desperados che ha creato un colossale esercito industriale di riserva dal quale attingere manodopera quasi gratuita, 3) sulla produzione di beni e servizi con bassissimo valore aggiunto, che richiedono una formazione rudimentale e pochissima spesa per ricerca ed innovazione tecnologica; 4) sull’abbattimento della qualità come veicolo per aumentare i profitti.


Basti pensare che le massime autorità dichiarano pubblicamente che non bisogna aumentare gli stipendi italiani, nonostante siano quelli cresciuti di meno in Europa negli ultimi 30 anni.


Fino a pochi anni eravamo abituati a vedere masse di lavoratori sfruttati in condizioni terrificanti nel terzo mondo e, si diceva, questo era un effetto della globalizzazione che aveva comportato la delocalizzazione di molte produzioni là dove il costo del lavoro e le possibilità di sfruttamento selvaggio fossero più “efficienti”.


Oggi il decoupling in corso tra l’Occidente e l’Asia, determinato da ragioni geopolitiche, sta fatalmente provocando uno spostamento verso ovest delle condizioni di tremendo sfruttamento dei lavoratori tipiche del Terzo Mondo: si riportano indietro produzioni delocalizzate, ma coi salari da fame.


Osservando quello che accade in Europa, l’Italia è indubbiamente il posto in cui questa deriva è più avanzata e feroce, come peraltro già accaduto alla fine dell’800 e questo ha ragioni storiche e sociali ben precise.


L’Italia si candida dunque a essere la faccia triste dell’Europa, parafrasando la celebre canzone, ovvero l’hub dello sfruttamento dei lavoratori, con produzioni basilari a scarso contenuto tecnologico, inserito in una cornice di località turistiche ad uso e consumo dei ricchi stranieri che fanno le loro vacanze spendendo pochissimo, grazie ad una massa di camerieri ed inservienti sottopagati e schiavizzati.


A questo contesto, come già visto nel secolo scorso, fanno da logico contraltare uno Stato sempre più autoritario ed il massiccio esodo verso l’estero di una parte della popolazione.

Stefania Piazzo

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